venerdì 1 marzo 2024
Una mostra al Mart indaga il peso dell’«umor nero» in 70 dipinti che, partendo dalla “Madonna col Bambino” di Dürer, ne scruta le diverse forme mettendo a confronto artisti antichi e contemporanei
Albrecht Dürer, “Madonna col Bambino” (particolare)

Albrecht Dürer, “Madonna col Bambino” (particolare) - Fondazione Magnani Rocca

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Il dolore materno è una delle forme dell’essere in cui si annida, come una gravidanza che comunica gioia e tristezza, la passione melanconica. Il tema femminile è dunque qualcosa di più di una esperienza, appartiene al mondo selenico, lunare; per Hugo Rahner, Selene è anche un simbolo della Chiesa, e forse può costituire un corollario della croce piantata già nell’Eden fin dall’origine, , come dissero alcuni mistici cristiani anche del nostro tempo. La malinconia si rivela nell’individuo come “mancanza”. Se esiste una malinconia gentile, che insorge da un umore che è quasi un’acqua di rose, la malinconia che si genera dall’“umor nero” è forse frutto di uno “sgravo” che lascia dietro di sé il vuoto che riempiva, una crisi di senso rispetto alla pienezza che lo precede.

La pienezza della madre gravida che è appunto “piena” e perfetta nel suo stato materno in atto. Sul manico di uno specchio in bronzo del V o del IV secolo a.C., oggi nel Museo Nazionale di Reggio Calabria, è raffigurata Elettra dolente sulla tomba del padre Agamennone. Seduta, la figlia dell’eroe greco abbraccia un'anfora appoggiandovi sopra la testa in uno stato di prostrazione interiore. L’opera esprime appunto l’insorgere della malinconia come privazione.

La malinconia femminile è fra le più frequenti anche nell’iconografia cristiana: vi sono Madonne col Bambino dove le teste della madre e del figlio piegandosi si toccano, e talvolta assumono pose che hanno a che fare con quelle del tipo raffigurato con la testa piegata su un lato e una mano che puntella il mento o la guancia come se la testa fosse oppressa da un pensieri gravi e stranianti. Della malinconia ci parlano la Madonna col Bambino dormiente di Mantegna dove la madre coccola il figlio e intanto sembra prigioniera della tristezza, o la Madonna dello zodiaco di Cosme Tura dove il Bambino dormiente ha la testa reclinata sulla spalla sinistra mentre le mani della Vergine lo toccano quasi per sincerarsi che, pur col pallore che lo avvolge, il bambino sia vivo. In realtà, nella iconografia cristiana il malinconico è spesso Giuseppe, il padre putativo. Un tema formidabile da studiare, ma che ci porterebbe lontano.

Al Mart di Rovereto Daniela Ferrari e Stefano Roffi hanno allestito una mostra di riflessi malinconici che ha il suo centro gravitazionale nella Madonna col Bambino di Albrecht Dürer della Fondazione Magnani Rocca (Dürer. Mater et Melancholia; fino al 3 marzo). Rispetto alla celebre incisione Melancholia I (esposta con altre stampe dell’artista) dove le forme della malinconia sono articolate dentro una composizione complessa ed enigmatica (studiata da Panofsky), la tavola dipinta funge come un catalizzatore dell’umor nero che fa da fondo preparatorio ad altre opere nostre contemporanee. Il gioco piace a Vittorio Sgarbi, che rivendica come al solito l’idea della mostra, secondo cui l’arte è sempre contemporanea, così sostennero i suoi due maestri: Longhi e Arcangeli.

La malinconia nel quadro di Dürer è scritta nello sguardo di Gesù bambino che alza gli occhi sulla madre, ma anche al cielo, come se scontasse in anticipo il presentimento del debito che poi assumerà morendo in croce. La madre è pensosa, ma in una luce che la rende “chiara” anziché “scura”. Il figlio sa bene cosa gli tocca e lo comunica alla madre dandole la manina: sembra che un’energia si comunichi a lei come una lieve scossa elettrica che contrae e divarica il pollice e il mignolo, in funzione simbolica, ma anche reale.

Va detto che il grande teologo italotedesco Romano Guardini aveva interpretato il vocabolo Schwer-Mut con un altro significato, non “umor nero” ma “umor grave” (e chissà che non si possa, in questo caso, considerarlo in rapporto al ventre materno gravido): è qualcosa che incombe sull’anima e comunica prostrazione interiore generando malessere e pensosità. Bisognerebbe rileggere Guardini perché il suo saggio sulla malinconia mette questo stato in relazione stretta con l’artista, la cui percezione dei valori è di solito alta, e può esercitare una potenza distruttiva: «più il valore è grande, più esso può avere effetti distruttivi».

Ma se l’artista ha contatto coi fondamenti oscuri dell’essere, il teologo aggiunge che se la malinconia ha a che fare con l’ “oscuro” esso però non vale come “tenebra” poiché, dice, «l’oscurità appartiene alla luce». L’oscurità conduce alle Madri goethiane, cioè alla morte, ma come luogo di passaggio verso la luce. Colpisce nella mostra una riproduzione contemporanea di Hubert Kostner di una Madonna col Bambino in legno, che replica certe fattezze di quelle sudtirolesi del XV secolo (una è in mostra), solo che l’artista ha scavato nel legno una sorta di caverna dell’origine tutta dipinta di rosso: grembo infuocato o prossimo sepolcro per il figlio?

In ogni caso, sembra di cogliervi anche un riferimento alle icone dove di solito la Vergine e il Bambino sono avvolti come in un lenzuolo al riparo di una caverna. I contrasti fra la madre Angelo della vita di Segantini e le Maternità di Severini, segnano un arco di tempo breve, due decenni, ma dicono come nel frattempo sia cambiato il sentire, lo stato interiore dove è la madre a vivere il peso dell’oscurità col volto assorto in un mistico presentimento custodito dentro una solidità di forma e colore.

La scultura in gesso di Lucio Fontana è una sintesi della malinconia nella Madonna col Bambino che si esprime come figura sedens, nel dormiente, e nella testa reclinata, una Madonna dell’umiltà ovvero una Tellus Mater. Le incisioni di Dürer, peraltro, ci fanno capire che la malinconia non è nell’immagine ma nella precisione incisoria di un segno che non permette al sangue di uscire dalla ferita, con la nettezza, diremmo oggi, di un bisturi elettrico. Esattamente al contrario Rembrandt, dove la luce incendia l’oscurità con esiti, nel Faust, quasi magici.

Nel più classico schema illustrato da Klibansky, Panofsky e Saxl, la Malinconia del Grechetto è la donna con la testa reclinata e la mano che la puntella mentre medita tenendo il teschio in grembo (in alto la scritta in latino: “Dove c’è malinconia, c’è virtù”). Nel segno della disperazione invece i disegni di Fabrizio Clerici, dove la figura sedens si porta le mani alla testa per non vedere, metamorfizzando il tema classico, che nel grande dipinto I cipressi, la pilla, il compasso mostra sullo sfondo e di fronte l’Isola dei morti di Boecklin. Il Dürer sepolto da Lino Frongia sotto un velo nero il cui ritratto appena si percepisce, è la rappresentazione fattuale della bile che offusca lo sguardo e ci fa vedere, talvolta, con altri occhi, quelli che Aristotele attribuiva al melanconico, l’ombra del profeta. O del visionario, direbbe Guardini, che sonda per tutti noi gli abissi della morte.​​

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