venerdì 8 marzo 2024
Una retrospettiva a Palazzo Reale indaga la prodigiosa pittura dell’artista pugliese che sposò le mode e le luci della vita moderna nella capitale dei francesi
Giuseppe De Nittis, “Il Kimono color arancio”, 1883-1884 (particolare)

Giuseppe De Nittis, “Il Kimono color arancio”, 1883-1884 (particolare) - Archivio Gallerie Maspes, Milano

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La pittura di Giuseppe De Nittis, veloce, disinvolta, sorretta dalla rivelazione della luce sulle cose, ha qualcosa del settecento veneziano, tra Piazzetta e Tipolo, ma con quell’eleganza senza inciampi che s’accompagna al tocco sapiente di Canaletto quando depone sulla tela le sue informi silhouettes umane. De Nittis è abilissimo nel manipolare la luce, pur senza darle un valore trascendente; pura immanenza delle cose rivelate; e Fernando Mazzocca introducendo l’attuale mostra dedicata al pittore nato a Barletta e poi napoletano d’adozione negli spazi di Palazzo Reale a Milano ("De Nittis. Pittore della vita moderna", fino al 30 giugno), sembra quasi deporre il segreto della sua pittura nel controluce di due sue opere degli ultimi anni di vita, resa breve da una morte improvvisa a trentotto anni mentre era all’apice del successo fra Londra e Parigi.

Mazzocca ricorda appunto l’Autoritratto a pastello del 1883 e quello della moglie Léontine in Giornata d’inverno di due anni prima. De Nittis gioca alla periferia del quadro con un vitalità che si specchia nella rapida pennellata che definisce gli sfondi con tratteggi e grovigli di colore che potrebbero far pensare a una poetica informale, in realtà sono l’espressione di una sprezzatura che nega il puntiglio della definizione e della mimesi realista che pure rientra dalla finestra in certi dettagli di figura, dopo essere stata espulsa dalla porta con il tocco disinvolto di un pittore capace di giocare con l’impressionismo che poco alla volta sta occupando la scena parigina.

De Nittis grazie alle cure del mercante Goupil ebbe un successo immediato già nel 1867. Poi la guerra francoprussiana e i moti della Comune segnarono una battuta d’arresto, quando il pittore torna a Napoli e a Barletta. La vita della capitale riprende dopo il 1871, e il mito della Ville Lumiere copre l’amaro della sconfitta e dell’odio fra fratelli con i vapori di una mondanità che il formidabile talento di De Nittis corrisponde con brillante condiscendenza nel rendere la voglia di vivere della società borghese che s’impone. A proposito di modernità e di rapsodie di segni, le ritroviamo anche nell’arte giapponese che viene sempre più ricercata da artisti e collezionisti parigini, anche alle Esposizioni universali. Il piacere della pittura di paesaggio, il rapporto con la natura, l’inclinazione per un mondo magico e rituale, con le vedute di Hokusai per esempio, è un paragone anche per i pittori che daranno vita all’impressionismo .

Ed è vero che De Nittis, guardando a Oriente coglie un clima che domina Parigi fin dall’Esposizione universale del 1867 – quando lui, poco più che ventenne, vi approda per la prima volta – che diffonde fra gli artisti, i poeti e le persone della buona società una moda che incarna un vero e proprio gusto dell’epoca, il giapponismo che estensivamente riassume i diversi orientalismi dell’arte cinese e coreana, e introduce negli usi e costumi dei parigini colti capi di vestiario come il kimono, i paraventi con temi figurativi ma anche astratti, i servizi da te di porcellana…

De Nittis colpisce per la sua abilità e per come sa esprimere questo nuovo stile di vita; ed Edmond de Goncourt scriverà di non aver mai visto «niente di così vaporosamente luminoso » e nemmeno «una qualità di pastello così nuova» (si veda l’effetto di nuance del fondo chiaro su cui si proietta la figura femminile in abito scuro nel pastello su tela La femme aux pompons, per rendersi conto dell’abilità tecnica del pittore). In effetti, come si vede anche in questa mostra milanese, De Nittis cava dal pastello effetti pittorici così charmant che lo spettatore si trova come immerso in quelle atmosfere. Si vedano opere come Place des Pyramides o Lungo la Senna, dove il compiersi della vita quotidiana è ritmato dalle macchie di colore che danno corpo alle figure in movimento nello spazio.

L’utilizzo dei bianchi, come nello straordinario ritratto della moglie già citato, oppure in ritratti come Sulla neve e La pattinatrice o nello straordinario Effetto di neve con una donna in primo piano mentre seduta guarda il paesaggio innevato, dove un’ombra sembra quasi assumere le sembianze di una fiera che rincorre gli uccelli in volo sul paesaggio, è pittura fatta di non so che, con una nonchalanche altamente sofisticata: se dipingere col grigio è un terreno di prova che, come nessun altro, sa rivelare le doti di colorista di un pittore – qui mi rifaccio alle parole di Gertrude Stein su Picasso – dipingere con tonalità di bianco è raccogliere la sfida a raggelare ovvero a rendere prezioso come l’oro e l’argento le sfumature e i riflessi della luce sulla superficie delle cose: il bianco freddo e il bianco tiepido notato da Goncourt nel loro contrappunto superano la stessa questione delle ombre che gli impressionisti dipingono col colore delle superfici su cui si proiettano.

Anche De Nittis ha imparato la lezione che Monet e Pissarro hanno appreso fuggendo da Parigi, mentre gli obici prussiani martellavano la città, osservando i paesaggi innevati di Londra. Mi è capitato recentemente di stigmatizzare l’“ombra molesta”, quella banda scura che le cornici spesso proiettano sui quadri a causa di una illuminazione fatta al risparmio e nel modo sbagliato. Nella tela Avenue du Bois de Boulogne, De Nittis risponde alla molestatrice con un’ombra che alla base della tela occupa un quarto della verticale, una fascia profonda proiettata sul prato, che lascia la restante superficie risplendere di una luce brillante che scalda tutti i colori del quadro, dimostrando che si può far diventare un’ombra la protagonista di un contrasto che invece di coprire, come la fastidiosa “ombra molesta” che impedisce la visione integrale del quadro (mi capitò qualche mese fa al Museo d’Orsay di vedere alcuni straordinari dipinti di Van Gogh menomati da una fascia scura di vari centimetri), potenzia l’effetto pittorico dell’opera.

Eppure, nonostante dipingesse, soprattutto negli ultimi anni, en plein air, dopo aver dato prova di grandissime doti di ritrattista, De Nittis non è un impressionista. È un pittore più sofisticato che sembra interpretare la caustica battuta di Degas il quale appunto disse che nel plein air tiravano troppe correnti d’aria. Con Degas De Nittis condivide uno sguardo che, come ricorda Mazzocca, è segnato dalla fotografia; vi sono dipinti dove il baricentro ottico si abbassa e sembra quasi dare alla rappresentazione una sorta di sommovimento prospettico, quello di un’onda che sale; altre volte il punto focale si alza e la prospettiva schiaccia la scena spingendola in lontananza; altre volte ancora la costruzione dell’immagine si complica e due diversi punti di fuga sembrano coesistere: straordinario il particolare del cane molosso in primo piano nel dipinto Il ritorno dalle corse, che tira in una direzione opposta a quella in cui procede la giovane donna che lo tiene strettamente al guinzaglio, mentre tutto lo sfondo con la gente che esce dall’ippodromo si distende in lontananza con una resa pittorica che ancora una volta si esalta nella sprezzatura e nel contrappunto del terreno chiaro e delle figure scure.

Il quadro forse tiene conto di quanto Degas aveva fatto nella tela che raffigura il visconte Lepic e le sue figlie mentre col cane attraversano Place de la Concorde: è un dipinto ad olio del 1875. La prospettiva che Degas inventa, come venne sottolineato oltre vent’anni fa da Kirk Varnedoe, anticipa addirittura certi tagli visivi della fotografia degli anni Cinquanta del Novecento. Dopo essere rimasta nascosta dalla Seconda guerra mondiale negli scantinati russi, nel 1995 Place de la Concorde venne mostrata in pubblico dall’Ermitage permettendo al pubblico di conoscere uno dei più importanti dipinti di Degas.

Il grande artista aveva infatti compiuto alcuni esperimenti sulla fotografia, ottenendo immagini innovative per lo studio delle costruzioni prospettiche. E la sua pittura se ne avvantaggia, così come il pastello fu una tecnica dove Degas introdusse parecchie novità. De Nittis deve aver preso nota, ma a differenza di Degas la sua pittura era estremamente velore e si percepisce nella volontà sintetica con cui definisce la rappresentazione, come del resto in quella sprezzatura che ho già sottolineato che rende certi suoi sfondi quasi delle tappezzerie.

Il richiamo che Mazzocca fa a Manet e Degas e ai giapponesi sembra convergere a definire De Nittis non, come si desse all’epoca, il “plus Parisien que tous les Parisiens”, forse anche per la sua capacità, grazie anche all’apporto della moglie, di rendere le loro case un punto di ritrovo per la mondanità culturale della capitale francese, ma un discepolo di quei maestri che nell’immagine cercavano di far emergere il paradosso dell’esistenza nelle sue forme meno conformiste. La pittura diceva Degas è arte di convenzione, non imitazione della realtà. De Nittis attraverso la luce e la pennellata la rigenera rendendo Parigi il teatro moderno di un sogno d’impalpabile concretezza. Definirlo, come recita il titolo della mostra, “l pittore della vita moderna” è però uno stereotipo, derivato da Baudelaire, che nega la drammaticità di una pittura incendiata dalla luce e inghiottita dalle nebbie, come quelle, per esempio, di Londra che avvolgono la veduta dal ponte di Westminster, in uno dei dipinti più celebri di De Nittis.

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