giovedì 16 luglio 2015
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Caro direttore,le motivazioni della sentenza con cui la quinta sezione penale del tribunale di Milano di fatto dichiara lecito il riconoscimento dei figli ottenuti con la cosiddetta "maternità surrogata", in barba alle leggi vigenti, non le provocano alcun ripensamento sulla questione delle unioni civili? Nella sua risposta alla lettera di Introvigne e Mantovano, lei confida che sia comunque possibile introdurre nei testi di legge specificazioni e distinzioni efficaci per evitare interpretazioni "pericolose". Direi che la notizia che oggi "Avvenire" dà con giusto risalto smentisce purtroppo questa fiducia. Le sentenze in Italia sono capaci di trasformare i divieti in permessi, figuriamoci cosa succederebbe con una legge (come il ddl Cirinnà) che crea un nuovo "istituto", aprendo inesplorate praterie per l’esercizio della fantasia giurisprudenziale. Dobbiamo riconoscerlo. In questa fase della vita del nostro Paese la via parlamentare per la difesa della famiglia e dei diritti dei bambini non ha più molti spazi. Occorre il coraggio di dire fermamente di "no" nella società, nella cultura e nelle piazze. Chi prenderà decisioni ingiuste nelle aule parlamentari e nei tribunali se ne assumerà la responsabilità: ma non in nostro nome. Benedetto Rocchi, FirenzeIl direttore Marco Tarquinio risponde:Non riesco a capire, caro dottor Rocchi, quale sarebbe il «ripensamento» che dovrei avere. Lei è nostro lettore e, dunque, dovrebbe avere ben chiaro che non mi auguro affatto una legge «come il ddl Cirinnà». Glielo conferma proprio la risposta che ho dato alla lettera di Introvigne e di Mantovano, come del resto i miei interventi precedenti su questo tema svolti in dialogo con alte cariche istituzionali, parlamentari, giuristi, bioeticisti e semplici cittadini come me. Non voglio una legge – cito di nuovo lei – «come il ddl Cirinnà», perché considero sbagliato quel progetto simil-matrimoniale e lo trovo segnato – riprendo la mia risposta già richiamata – «nella sua attuale e pessima versione» da una grave «doppiezza». Ecco perché dico che, se proprio si vuol percorrere anche in Italia la strada di una legge che regoli le convivenze tra persone dello stesso sesso, è importante che una simile normativa si ponga su un piano chiaramente distinto da quello matrimoniale. Cosa che sinora non è mai accaduta altrove.Perciò non vedo modelli da importare nel nostro Paese, ma una «via italiana» da trovare con intelligenza e – per indicare la necessaria diversa natura di un tale istituto – uso da anni, in articoli e dibattiti pubblici, l’aggettivo «patrimoniale». E non si tratta di vane sottigliezze o di questioni astratte. Purtroppo, infatti, nel nostro Paese sta prendendo forma comunque, in modo caotico e spesso sconcertante, una regolazione delle relazioni all’interno di coppie omosessuali (che più d’uno vorrebbe estesa alle convivenze eterosessuali). In parte, come anche lei nota nella sua lettera, questo sta avvenendo per effetto di una serie di sentenze giudiziarie che in modo improprio, rischioso e spesso contraddittorio guardano a regole di altri Stati. Ma soprattutto c’è oggi un dato di fatto: i principali gruppi politici (Partito democratico, Movimento 5 stelle e Forza Italia) e diverse altre formazioni parlamentari minori hanno presentato progetti specifici e intendono condurre in porto una legge sulle "unioni civili". Il governo Renzi, inoltre, ha ripetutamente affermato di voler sostenere tale approdo normativo. A far da cornice alle dichiarate intenzioni c’è, come ho ricordato più volte, una importante sentenza della Corte costituzionale, che – piaccia o non piaccia – ha spostato in avanti il paletto della possibile normazione in materia, indicando per i cittadini e le cittadine omosessuali «il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri».Lei dice che bisogna difendere la famiglia e i diritti dei bambini scandendo un fermo "no" «nella società, nelle cultura, nelle piazze». È una possibilità. Io però dico che bisogna dire soprattutto i nostri "sì", lavorando seriamente per evitare che una deriva giudiziaria (in atto) e legislativa (incombente) metta in questione ciò che in Italia si va incrinando sotto pressioni interne ed esterne, ma che anche la Consulta, in quella stessa sentenza di cinque anni fa, ha riaffermato, ovvero l’unicità della famiglia fondata sul matrimonio ex art. 29 della Costituzione. E aggiungo che bisogna ribadire con la stessa intensità la irriducibilità dei figli a prodotti e a oggetti del desiderio, programmaticamente sottratti alla crescita con il loro padre e la loro madre (ma anche con un padre e una madre...) e consegnati sempre più spesso al commercio organizzato sulle pelle dei poveri e grazie alle tasche di ricchi disposti a comprare grembi di donna e gameti umani. Dico che bisogna ancorarsi, civilmente, al rispetto della verità della vita umana e della vita delle concrete persone. Dico che bisogna affrontare anche questa sfida con la gioia del Vangelo, e cioè con la capacità di vivere una vita buona e cristianamente attraente. E penso che lei e io abbiamo sentimenti e preoccupazioni comuni, ma ancora non ci capiamo su un punto chiave. Se si scegliesse la strada dell’Aventino cultural-politico accompagnato da una dura e pura contrapposizione sociale e persino di piazza, e intanto in certe aule di tribunale si continuassero a rovesciare norme e princìpi e in Parlamento nascesse una pessima legge, ritengo che nessuno potrebbe dirsi "giusto" e considerarsi "salvo" perché non c’era e, comunque, non era d’accordo e, magari, ne ha dette quattro a qualche giudice e alle signore e ai signori legislatori. Non è questione di mali minori da conseguire, ma di beni da difendere e da affermare. Ed è un impegno che a nessuno – in Parlamento e fuori da esso – consente di mettersi alla finestra, di perdere lucidità e voce o, peggio, di ignorare la realtà. Siamo cittadini, siamo cattolici e siamo democratici, e dobbiamo fare la nostra parte. Qui e ora.
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