lunedì 3 settembre 2012
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Riconosciuti dalla legge, tollerati in pubblico ma sottoposti a una discriminazione sostanziale nella burocrazia, negli uffici, nelle scuole, nei tribunali, ogni volta che ci sia da far valere un diritto civile. La vita dei cristiani in Iran non è facile. «Siamo cittadini, ma di serie B, di seconda classe», dicono quei pochi che accettano di parlare, fatto salvo che desiderano non rivelare la loro identità. Eppure i templi cristiani, nel Paese, non sono catacombe. La chiesa cattolica di Teheran, accanto all’ambasciata, fondata dai salesiani nel 1936, è stata rinnovata da poco e ha campane e croci in bella vista; le chiese armene di Isfahan sono incastonate nel quartiere di Jolfa che è cristiano dall’epoca dello scià Abbas I, nel 1604; gli edifici di culto sono monumentali, meta di turisti di tutte le confessioni religiose e possono vantare un museo abbastanza ricco di reperti della tradizione; perfino la chiesa protestante di Rasht, quella che è più nell’occhio del ciclone a causa degli ultimi arresti di fedeli e pastori, all’esterno è riconoscibilissima: due croci rilevate sul portone che spiccano sul fondo bianco del muro. Ma nella Repubblica islamica d’Iran che vive una sorta di schizofrenia sociale – la vita pubblica, aderente alle regole e alla legge, è solo la testa della medaglia su cui la vita privata, modernissima e con qualche eccesso, ne è la croce – non stupisce che quel che si veda, a un primo sguardo, non corrisponda a ciò che esattamente è. Le comunità, soprattutto nel Nord del Paese, dove ultimamente le conversioni dall’islam al cristianesimo sono state numerose, vivono blindate. Non è permesso l’accesso ai non cristiani alle funzioni: si vive nel timore di mettersi in casa un delatore, una spia, anche fosse il vicino di casa o un parente molto prossimo. I numeri telefonici della chiesa armena di una città del Nord del Paese girano tra pochi adepti: tutti sanno che qualsiasi chiamata è registrata, che chi dice di recarsi lì potrebbe essere seguito. E, infatti, se il numero arriva nelle mani di uno straniero che vuole sapere o conoscere, non è raro che qualcuno lo fermi e gli chieda, non senza ambiguità, perché si trova lì e se volesse seguirlo per andare a prendere un tè. Per penetrare nelle sacrestie iraniane, quello che funziona è il passaparola, stando bene attenti a capire chi ci si trovi di fronte. A Isfahan, la cattedrale di Vank, costruita tra il 1606 e il 1655 con il sostegno dei sovrani della dinastia safavide, dà l’impressione che essere cristiani in Iran sia un fatto accettato e anche valorizzato, vista la magnificenza del sito e il flusso di turismo soprattutto interno. Ma si fa fatica a domandare a chi ha in custodia le chiavi di questa e delle altre due chiese (le chiese di Betlemme e di Maria) di essere ammessi la domenica, quando si celebrano le funzioni religiose, nelle sedi del culto vero e proprio. E alla domanda: «Ci sono discriminazioni nella vita quotidiana?», la risposta, nel migliore dei casi, è un invito in casa privata ma da soli, lontani da orecchie indiscrete. Dalle esperienze rivelate si comprende che tra la teoria e la prassi giuridica, c’è il mare: come nel caso del risarcimento danni dopo un incidente stradale, nell’accesso all’università a numero chiuso o alle scuole. I cosiddetti dhimmi (cioè i cittadini non islamici) pagano sempre di più: non hanno, di fatto, gli stessi diritti degli sciiti.  «Su settanta milioni di iraniani – dice un religioso che vuole rimanere anonimo – i cristiani cattolici sono pari allo 0,35% della popolazione totale. La popolazione cristiana si è anche ridotta a un terzo rispetto a dieci anni fa». Molti hanno chiesto il visto austriaco, per poi avere come destinazione finale gli Stati Uniti. «Ma si vive in un paradosso: nonostante nel Maijlis, l’assemblea consultiva islamica, le minoranze abbiano diritto ad almeno un rappresentante; nonostante per legge tutti gli iraniani siano uguali, senza distinzione di appartenenza per gruppo etnico, colore, lingua e nonostante tutte le minoranze abbiano diritto di protezione se vivono su questo territorio, in conformità con i principi islamici, di fatto non è così». Infatti, la Repubblica islamica permette la libertà di culto ma non di religione. E questi sono gli articoli (13 e 14) ai quali sono stati inchiodati i rappresentanti della comunità protestante di Rasht.
A Rasht la religione è un argomento tabù, complice il fatto che negli ultimi anni molti musulmani sono passati al cristianesimo e si sono uniti a un movimento crescente (la Hauskirche, Chiesa domestica), diventato anche più forte della Chiesa cattolica. Su questa scia sono aumentati i controlli della polizia, le intimidazioni, gli arresti: un musulmano che si converte al cristianesimo sa che si macchia del reato di apostasia, punibile con la morte. Anche per questo motivo i musulmani praticanti non entrano in una chiesa dove si officiano i riti, temendo di potere essere indicati come apostati nel caso di un controllo delle autorità. Del resto, il rapporto di Human Rights Watch del 2011, pubblicato da poco dall’agenzia di informazione cristiana Mohabat news, indica una tendenza in crescita che la conoscenza sul campo conferma. In un anno la pressione del governo sulle minoranze è aumentata: sono state rilevate 274 violazioni che hanno coinvolto 876 persone. I baha’i sono al primo posto in 100 occasioni, i dervisci al secondo con 46 episodi, i cristiani al terzo con 29. Il tutto in un quadro che registra un totale di 498 sentenze di condanna a morte. Il prossimo 8 settembre, con la sentenza definitiva per il pastore Youcef Nadarkani, arrestato nell’ottobre 2009 a Rasht, già condannato a morte in primo grado per apostasia, si saprà se bisognerà conteggiare un’altra vittima. Rea di avere dichiarato una fede diversa da quella all’imam Alì, padre dello sciismo.
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