venerdì 19 giugno 2015
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​Vent’anni fa, il 20 giugno 1995, moriva a Parigi lo scrittore Emil Cioran. Sulle rive della Senna era approdato a 26 anni, nel 1937, dopo aver lasciato alle spalle la sua patria, la Romania, e la sua cittadina, Rasinari, un delizioso villaggio della Transilvania. Posto su un colle circondato da monti coperti di querce, faggi e pini, attraversato da un ruscello, pittoresco per il paesaggio, quel piccolo centro era marcato religiosamente da due chiese, l’una settecentesca, l’altra neoclassica dedicata alla Trinità, della quale era parroco suo padre. La lapidaria carta d’identità ideale di Cioran era, però, così scandita: «Io sono uno straniero per la polizia, per Dio, per me stesso». Straniero, quindi, per la sua nazione originaria, che egli aveva cancellato dalla sua anagrafe personale, abbandonandone anche la lingua. Straniero anche per la nazione che l’aveva ospitato, a causa del suo costante isolazionismo: «Sopprimevo dal mio vocabolario una parola dopo l’altra. Finito il massacro, una sola rimase come superstite: Solitudine. Mi risvegliai appagato». Straniero, infine, per Dio, lui che - come dicevamo - era figlio di un prete ortodosso. Talmente straniero da iscriversi alla "razza degli atei", eppure con un’insonne ansia di inseguimento nei confronti del mistero divino: «Mi sono sempre aggirato attorno a Dio come un delatore: incapace di invocarlo, l’ho spiato». È per questa ragione che di lui posso anch’io brevemente parlare, senza pretese di travalicare il mio perimetro di teologo sconfinando nell’analisi di critica letteraria che le sue opere meritano, un vaglio che effettivamente è stato ampiamente condotto. Cioran, infatti, si è appostato a più riprese per tendere agguati a Dio costringendolo a reagire e quindi a svelarsi.Emblematico è il dialogo che a distanza intavolò col teologo rumeno Petre Tutea. Costui non aveva abbandonato la sua terra, nonostante 13 anni trascorsi nelle prigioni di Ceausescu, né tanto meno la sua fede, a tal punto da replicare a Cioran così: «Senza Dio l’uomo rimane un povero animale, razionale e parlante, che non viene da nessuna parte, e va non si sa dove». In realtà, il suo interlocutore non era strettamente ateo né agnostico, tant’è vero che era giunto al punto di suggerire ai teologi una sua particolare via "estetica" per dimostrare l’esistenza di Dio. Scriveva, infatti, in Lacrime e santi (tradotto da Adelphi nel 1990): «Quando voi ascoltate Bach vedete nascere Dio… Dopo un oratorio, una cantata o una "Passione", Dio deve esistere… Pensare che tanti teologi e filosofi hanno sprecato notti e giorni a cercare prove dell’esistenza di Dio, dimenticando la sola!».Cioran accusa l’Occidente di un delitto estremo, quello dell’aver estenuata e disseccata la potenza generatrice del Vangelo: «Consumato fino all’osso, il cristianesimo ha smesso di essere una fonte di stupore e di scandalo, ha smesso di scatenare vizi e di fecondare intelligenze e amori». Potremmo, perciò, considerarlo come un Qohelet-Ecclesiaste moderno. Egli, infatti, si era trasformato in una sorta di "mistico del Nulla", lasciando intravedere il brivido delle "notti dell’anima" di certi grandi mistici come Giovanni della Croce o Angelo Silesio, risalendo fino allo sconcertante cantore del nesso Dio-Nulla, il celebre Meister Eckhart medievale. «Ero ancora un bambino, quando conobbi per la prima volta il sentimento del nulla, in seguito a un’illuminazione che non riuscirei a definire». Un’epifania di luce oscura, potremmo dire con un ossimoro usato dal Giobbe biblico. «Si ha sempre qualcuno sopra di sé - continuava -; al di là di Dio stesso si eleva il Nulla». Ma ecco il paradosso: «Il campo visivo del cuore è: il mondo, più Dio, più il Nulla. Cioè tutto». E allora questa è la sua conclusione: «E se l’esistenza fosse per noi un esilio e il Nulla una patria?». Il Nulla - sempre per ossimoro - diventa il nome di un Dio, certamente ben diverso dal Dio cristiano, eppure come lui pronto a raccogliere il male di vivere dell’umanità. Scriveva Cioran, evocando la "psicostasia" dell’antico Egitto, ossia la pesatura delle anime dei defunti per la verifica della gravità delle loro colpe: «Nel giorno del giudizio verranno pesate solo le lacrime». Nel tempo della disperazione, infatti, certe bestemmie - dichiarava Cioran, sulla scia di Giobbe - sono "preghiere negative", la cui virulenza è accolta da Dio più della compassata lode teologica (l’idea era già stata formulata da Lutero).Cioran è, quindi, un ateo-credente sui generis. Il suo pessimismo, anzi, il suo negazionismo riguarda piuttosto l’umanità: «Se Noè avesse avuto il dono di leggere il futuro, non c’è alcun dubbio che si sarebbe fatto colare a picco!». E qui il Nulla diventa il mero nulla, un vuoto annientamento: «Adorare la terra e dirsi che proprio essa è il termine e la speranza dei nostri affanni, e che sarebbe vano cercare qualcosa di meglio per riposarsi e dissolversi». L’uomo con le sue follie ti fa perdere ogni fede, è una sorta di dimostrazione della non esistenza di Dio e l’invito a un ritorno al nulla.In questa luce si spiega il pessimismo radicale di Cioran che brilla già nei titoli delle sue opere: L’inconveniente di essere nati, La tentazione di esistere, Sulle cime della disperazione, Squartamento, Sillogismi dell’amarezza e così via. E qualche volta è difficile dargli torto, guardando non solo la storia dell’umanità, ma anche il vuoto di tanti individui che non ha niente del tragico Nulla trascendente: "Di molte persone - scriveva - si può affermare quanto vale per certi dipinti, cioè che la parte più preziosa è la cornice". Ma per fortuna - ed è questa la grande contraddizione - esiste, come si diceva, anche Bach…
Idealmente si potrebbe accostare a Cioran un suo amico, anch’egli rumeno, lui pure esule a Parigi e morto un anno prima, il 28 marzo 1994, cioè il grande drammaturgo Eugène Ionesco. Agnostico ma non indifferente, durante un’intervista, scherzando ma non troppo, aveva confessato: «Mi precipito al telefono ogni volta che suona, nella speranza, ogni volta delusa, che possa essere Dio che mi telefona. O almeno uno dei suoi angeli di segreteria». Alla base del suo pessimismo nei confronti dell’umanità, analogo a quello di Cioran, c’era però in Ionesco lo stupore di una persona ferita dall’imperio della stupidità, del male, della cattiveria, dell’umiliazione dei piccoli e degli innocenti, della menzogna comunista dominante nel suo Paese.Ed era proprio da questa temperie morale che fioriva il suo anelito verso il mistero, la sua inquietudine spirituale, la sua ricerca del Dio nascosto che non telefona mai alla sua creatura che pure è in angosciosa attesa di un suo squillo. L’ultima riga del suo diario è stata, però, folgorante: «Pregare. Non So Chi. Spero: Gesù Cristo». Proprio per questo è importante anche per noi credenti seguire i percorsi di simili ricerche condotti da persone non credenti ma col viso rivolto verso l’infinito e l’eterno. Il loro impegno è sincero e, a differenza di certi atei devoti, non ha interessi di altro genere, insalivati con altri sapori di tono politico o sociale.Come riconosceva uno scrittore cattolico francese, Pierre Reverdy, «ci sono atei di un’asprezza feroce che, tutto sommato, si interessano di Dio molto di più di certi credenti frivoli e leggeri». Proprio per questo ho cercato in più occasioni di introdurre nel "Cortile dei gentili" per il dialogo tra credenti e non credenti, sia Cioran sia Ionesco, così come un altro grande scrittore francese, Albert Camus. Essi ci insegnano che il vero ateismo contemporaneo non è il loro ma lo è quell’indifferenza, superficialità, banalità che genera un "apateismo", un vuoto che non ferisce né emoziona, a differenza di queste voci apparentemente scandalose ma autenticamente inquiete e in ricerca. E già il Socrate di Platone affermava che «una vita senza ricerca non merita di essere vissuta».
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