giovedì 5 maggio 2016
Quella simbiosi tra Chiesa e popolo «Anche adesso chiamati a risorgere»
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C’è un anniversario delle celebrazioni ed è quello che ai friulani non piace. Poi c’è un anniversario che a 40 anni dal terremoto è «l’occasione da non perdere per risorgere ancora una volta come allora, in questo tempo di crisi», ed è quello che i friulani, credenti o no, riassumono in un’immagine simbolo, quella dell’allora arcivescovo di Udine, Alfredo Battisti, che nella caserma disastrata di Gemona rifiutò l’incontro con i politici venuti da Roma perché la gente comune era stata lasciata fuori: «Io resto con il mio popolo».  Fu Battisti il primo firmatario di una proposta di legge che chiedeva a gran voce la fondazione di un ateneo friulano: nelle tendopoli si piangevano ancora i mille morti, ma già si pensava ad ottenere quell’università che il terremoto non solo non fece dimenticare, ma addirittura rese più urgente. Di tenda in tenda, di strada in strada, un autobus con a bordo un notaio raccolse 125mila firme e a Roma non poterono più fingere di non vedere. Il 'Bollettino di Coordinamento delle tendopoli', che iniziò a uscire ciclostilato subito dopo il sisma per tenere sempre aggiornata la popolazione, il 19 maggio riportava la denuncia dei preti friulani contro le remore del governo centrale verso 'questo diritto sacrosanto'... Ma fu ancora la Chiesa, in simbiosi stretta con la gente, a evitare ciò che allora si temeva di più, e cioè che in Friuli si ripetesse lo scempio del Belice, in Sicilia, dove il sisma aveva infierito nel 1968 e otto anni dopo nulla era stato ricostruito.  «Don Antonio Riboldi, allora parroco nel Belice, venne tra noi per metterci in guardia dai rischi del post terremoto», ricorda monsignor Duilio Corgnali, direttore del Centro di documentazione della diocesi di Udine e all’epoca segretario del Coordinamento delle tendopoli. Dal Friuli una delegazione andò a constatare gli errori da non ripetere e la situazione che trovò nel Belice fu scioccante: «Partirono l’arcivescovo Battisti, i parroci e i sindaci – continua Corgnali – e videro come la popolazione, vittima, fosse tenuta al di fuori di ogni decisione sul suo stesso destino. Poteva solo attendere. La ricostruzione doveva calare dall’alto e chi faceva da solo era denunciato per abuso edilizio». La pressione della Chiesa friulana, allora, contribuì ad ottenere dallo Stato la totale auto- nomia dei terremotati nella ricostruzione. «A furor di popolo, i fondi furono gestiti direttamente dai sindaci, che assunsero il ruolo di commissari e censirono le singole necessità famiglia per famiglia – racconta monsignor Angelo Zanello, oggi vicario foraneo di Tolmezzo, nel 1976 30enne cappellano di Artegna, uno dei paesi più distrutti –. Nacquero le assemblee di borgo e di tendopoli, perché fu immediatamente chiaro che più dei bisogni materiali la gente doveva conservare un ideale grande da perseguire». Le migliaia di volontari giunti da tutta Italia trovavano al loro arrivo i capicampo che subito li smistavano e ad indirizzare in modo mirato gli aiuti erano anche i sacerdoti, in un’epoca in cui in Italia non esisteva la Protezione civile e di sistemi antisismici non si sentiva nemmeno parlare.  «Basti dire che dopo la distruzione del 6 maggio le famiglie cominciarono subito a rappezzare le case, senza immaginare che solo quattro mesi dopo, l’11 e il 15 settembre, un terremoto ancora più violento avrebbe raso al suolo tutto – spiega Bruno Tellia, sociologo all’università di Udine –. Per fortuna ci fu quest’altra scossa, perché costrinse a prendere atto della realtà. Non esisteva una legislazione nazionale sulle emergenze e il Friuli divenne un grande campo sperimentale di tecniche ricostruttive ma ancor più un laboratorio culturale di partecipazione attiva: le famiglie misero risorse proprie pari a quelle ricevute dallo Stato. Come? Con il proprio lavoro e mobilitando tutte le possibilità familiari ». Indimenticato, tra gli altri, don Gelindo Lavaroni di Artegna, il cui ritratto oggi è appeso in molte case: ideatore di un microcredito ante litteram, utilizzò i cento milioni ricevuti perché la gente avviasse a interessi zero la ricostruzione prima ancora che ci fosse una legge. Poi, quando arrivarono i fondi dello Stato, molti restituirono più di quanto avevano avuto e i 100 milioni rientrarono moltiplicati. Il terremoto del Friuli, per dirla con l’arcivescovo di Udine Andrea Bruno Mazzocato, fu insieme «una vicenda terribile e straordinariamente vitale», purché questo anniversario non diventi un’occasione persa. Perché – riprende monsignor Corgnali – ricordare il famoso 'modello Friuli' deve essere «imprescindibile dal futuro di questa terra: se non trasmettiamo ai giovani i valori che permisero al nostro popolo di risorgere, noi mancheremo un impegno ». La ricostruzione in Friuli ha funzionato, «anche troppo» dice qualcuno, e la «celebrazione del successo» ha fatto dimenticare la fatica di ritrovare la propria identità, «ma così il 'modello Friuli', cioè la solidarietà, scompare». Scuote la testa Annamaria De Monte, un tempo maestra a Montenars: «Noi abbiamo perso la povertà, quindi la libertà. Chi ha molto, è preoccupato solo di non perderlo». A tutto questo servono i grandi anniversari, se no sono solo coincidenze.
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