mercoledì 11 febbraio 2015
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Che cos’è un’omelia? Il mio parroco aveva messo un grosso orologio da parete, in posizione strategica, per non oltrepassare il tempo prefissato. Io scrivo ogni volta – quasi interamente – quello che devo dire, perché non voglio tediare gli ascoltatori con le ripetizioni né portarli fuori strada con imprecisioni dottrinali. Un amico vorrebbe mettere sotto ogni pulpito, ambone, microfono e amplificatore un cartello: «Attenzione: pericolo!». Ma chissà se questo basterebbe a renderci coscienti della responsabilità che noi sacerdoti abbiamo nei confronti della Parola che ci è stata affidata e dei fedeli che hanno il diritto di ascoltarla nella sua pienezza.Quello che frequenta abitualmente la chiesa è un popolo affamato di verità, ma spesso frastornato e confuso dalla grande quantità dei messaggi circolanti, spesso estranei al Vangelo. Questo stesso popolo, dopo aver portato nel centro della Eucaristia domenicale i propri dolori e le proprie ansie, vorrebbe uscirne illuminato e incoraggiato per la fatica della settimana. La conoscenza delle pagine bibliche proposte, pur dopo tanti anni di liturgia rinnovata, resta povera. E però non si può fare solo una istruzione che tenti di colmare le lacune. L’attenzione, sia nei piccoli che negli anziani (spesso la maggioranza), cala presto e allora si deve usare qualche piccolo trucco per ravvivarla. Ora ce lo ricorda – tra tante altre indicazioni – anche il «Direttorio omiletico» presentato ieri in Vaticano. L’adesione personale a quanto si sta spiegando – lo potete giudicare da certe assemblee mute che circondano matrimoni o funerali – non è sempre piena. E così l’impresa si fa proprio difficile. Perché si deve proporre la Parola senza imporla, secondo lo stile di Gesù. Si deve illustrare il fascino del bene e non scoraggiare (grande preoccupazione di sant’Agostino) quelli che hanno difficoltà ad abbracciarlo. Non si può tentare di ingozzare in pochi minuti chi ha le forze per digerire l’annuncio gradualmente e lentamente. Diceva il grande Giovanni Crisostomo che non si può salire sul pulpito senza sapere quello che è successo in città durante la settimana. Ma non si può usare la cronaca per giudizi moralistici o invettive a chi sta molto lontano.Quando però è un popolo conosciuto e amato quello a cui si deve spezzare il pane della Parola io credo che l’impresa possa riuscire. Se si capiscono le lentezze e le fragilità, le attese e i desideri, le gioie, gli entusiasmi e le delusioni, di quei pochi o tanti che si sono messi in viaggio per ascoltare il Maestro, allora si riescono a trovare anche le parole giuste. Quasi mi spavento quando vedo il mio popolo così attento e interessato a quello che dico. Ma sono anche contento, perché quei pochi minuti sono un frutto importante del tempo passato nello studio, nella meditazione, nella preghiera. Perché, se non hai ascoltato tu per primo la Parola, come puoi pretendere che l’ascoltino gli altri? Ha scritto il martire Ignazio ai cristiani di Efeso: «È meglio tacere ed essere, che parlare senza essere. È cosa bella insegnare, se chi parla mette in pratica».
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