giovedì 26 maggio 2016
​Scomparso a Bergamo. Aveva 100 anni, fu creato cardinale da Papa Francesco. (Marco Roncalli) Dolore nella Chiesa 
Loris Capovilla, testimone del Concilio Vaticano II: il "Papa Buono" in ascolto dell'ispirazione (Filippo Rizzi) GUARDA I VIDEO
Morto Capovilla segretario di Giovanni XXIII
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È morto oggi a Bergamo il cardinale Loris Francesco Capovilla, già segretario particolare di Papa Giovanni XXIII. L'arcivescovo aveva cento anni, compiuti il 14 ottobre scorso. Dal 15 aprile era il più anziano vescovo d'Italia e il quarto del mondo. Creato cardinale da Papa Francesco il 22 febbraio 2014, aveva il titolo presbiterale di Santa Maria in Trastevere.
Con il suo secolo tondo sulle spalle è stato in salute discreta sino a poche settimane fa, poi attorno a metà maggio il crollo improvviso. Giorni fa, due preti uno milanese ed uno triestino d’adozione - corsi a salutarlo in clinica a poche ore di distanza - dicevano giustamente la stessa cosa: che aveva abituati tutti troppo bene. Ottanta, novanta, novantacinque, cent'anni... e don Loris - nel frattempo diventato il cardinale Capovilla - era sempre là prima al tavolo poi sulla sua poltrona a Ca' Maitino, tante carte e il breviario a portata di mano: là nella “casa di papa Giovanni” custodita dalla Suore delle Poverelle. Cedevano le gambe? “Non devo correre, l’importante è che funzioni la testa” . Cedeva la vista? E allora ecco ,insieme alle suore, amici e volontari a leggergli libri e giornali,a passargli le telefonate, a fargli compagnia (con lui sempre pronto a ricordare date, nomi, fatti), oppure a trascrivere testi (tra gli ultimi, commovente quello riservato alla “sua” Venezia il 25 aprile scorso “ Col cuore, la preghiera e la speranza mi trovo in Piazza San Marco e mi esalto al suono delle campane …. Bacio la soglia della Basilica d’oro”), ad accendergli il piccolo schermo se si trattava di ascoltare l’Angelus di papa Francesco (nel quale –ha sempre detto- ritrovava i tratti di Giovanni XXIII e che gii ha trasmesso l’ultima benedizione attraverso il vescovo di Bergamo Francesco Beschi).

“Dio le conceda lunga vita perché lei continui a parlarci di papa Roncalli, anzitutto dell'ispirata decisione di convocare a concilio tutto il mondo ...”, gli aveva detto il 21 maggio 2011, a Gallarate, il cardinal Martini. È stato così per un altro lustro. Ha fatto in tempo a lavorare ancora. A celebrare in cappella, poi nella camera dove ha trascorso la sua vita a Sotto il Monte. A scegliere quale segreto portarsi via con sé o condividere in extremis. E nelle ultime settimane ad accarezzare le nuove pubblicazioni della Fondazione Papa Giovanni XXIII di Bergamo (destinataria del suo archivio roncalliano).

Soprattutto, nelle due stanze occupate successivamente alla clinica Palazzolo di Bergamo, ”don Loris” ha fatto in tempo soprattutto a prepararsi all'incontro con la morte più volte immaginato, a ricevere il conforto dell'estrema unzione, a cercare nei ricordi il volto di umili e potenti che a quest'ora avrà ritrovato, a lasciarsi alle spalle per sempre periodi vissuti in una certa solitudine alternati ad altri costantemente sotto i riflettori, a perdonare e chiedere perdono, a benedire (“benedico tutti”), ad invitare giovani uomini accanto al suo letto con l’aria smarrita all'amore reciproco (“amatevi”, “siate uniti!”), stringendo forte le mani che gli venivano tese, indicando la guancia per l ’ultimo bacio, invitando alla preghiera (“per la pace”, “per il mondo”, “per la terra di Gesù”). Poi lentamente è arrivato il suo “dies natalis”. Nato a Pontelongo il 14 ottobre 1915, orfano del padre a sette anni, trasferitosi con la madre e la sorella a Mestre nel '29, Capovilla era stato ordinato sacerdote nel '40. L’entrata in guerra dell’Italia mandò a monte i progetti di chi voleva farlo proseguire negli studi. Così nel frattempo gli vennero affidati impegni di coadiutore parrocchiale, catechista, cerimoniere, cappellano... Inviato all’aeroporto militare di Parma per l’assistenza spirituale, lì fu colto dall'armistizio del '43 e strappò alcuni avieri all'internamento. Ritornato a Venezia a dicembre, anche perché malato, fu cappellano dell'ospedale per gli infettivi a S. Maria delle Grazie. Poi nel dopoguerra cominciò a lavorare ai microfoni della Rai di Venezia, alla Voce di San Marco, all’Avvenire d'Italia. Subito dopo l'arrivo nella laguna - 15 marzo '53 - il neopatriarca Roncalli (già incontrato sia a Venezia che a Parigi) l'aveva voluto come segretario nonostante gli avessero sussurrato .“È un bravo prete, non gode però buona salute e avrà vita breve". ”Se non ha salute verrà con me e morirà con me", aveva sentenziato il patriarca. E invece... dopo aver servito Roncalli a Venezia e in Vaticano per un decennio, gli è sopravvissuto per più di cinquant'anni. Raccogliendone l'eredità, facendone conoscere gli scritti: il suo modo per essere fedele al mandato ricevuto da Giovanni XXIII di “storico” del suo papato e del Vaticano II. Fedele alla bussola del Concilio è sempre stato pure nel suo stile episcopale e nei suoi testi pastorali da quando, nel ’67, fu eletto arcivescovo di Chieti-Vasto e, quando, dal 1971, divenne “il vescovo dei pellegrini” alla Delegazione Pontificia di Loreto, cui fece seguito, dal 1989, dopo un periodo ad Arre, l'approdo a Sotto il Monte. Qui ha continuato a studiare le carte roncalliane e a metterle a disposizione degli studiosi. Qui ha ricevuto la porpora per volontà di un pontefice che ha davvero amato senza averlo mai incontrato: ritrovandoselo vicino nella preghiera, nell'amore per i poveri, nella visione ecclesiologica. “Nutro fiducia sulle sorti del pianeta Terra. Continuo a proporre attenuanti alle colpe dell'umanità, non per inclinazione al vituperato buonismo, ma per dovere di giustizia temperata dalla misericordia…”, così disse dopo l’imposizione della berretta cardinalizia (i temi poi emersi nella Laudato si’ e nell’anno giubilare). Negli ultimi tempi, non dimenticando mai nessun momento della sua vita accanto a papa Giovanni condividendone sofferenze e gioie, era arrivato a punte di ottimismo sempre più palesate: “Vivo i miei giorni del tramonto assistendo al rinnovarsi dell’aurora della Chiesa. Ed è motivo di consolazione, anche se so che ogni giorno, ogni notte è buona per partire. Tantum aurora est!”. Sin qui la cronaca confidando - appena questo momento di mestizia avrà ceduto spazio ad una serena nostalgia - almeno in un paio di cose. Che gli storici, come già alcuni hanno cominciato a fare, avviino una ricostruzione del suo profilo di ecclesiastico catapultato dal Veneto in Vaticano dicendoci di più su questo sacerdote (del quale don Giuseppe De Luca in una lettera il 25 febbraio 1962 scriveva “Ci sono preti ai quali non si può sputare in faccia anche se sotto quella faccia, lì per lì, non splenda la faccia di Cristo. Glielo dico io, e don Loris Capovilla è di codesti pochi..”). E poi che dai più si raccolga l'invito sempre rilanciato da questo “evangelista di papa Giovanni” (come lo definì don Andrea Spada): “mettere il proprio io sotto i piedi”, vivere impegnandosi “in progetti non sulla propria persona”, ma “a servizio degli altri”. Come ha fatto lui nella sua vita. Ecco perché già nel primo messaggio ricevuto appena ieri si è sparsa la voce della morte ho trovato scritto queste parole “Capovilla lascia orfani molti figli – uomini e donne, giovani e anziani, cristiani e non cristiani – nei cuori dei quali ha deposto un scintilla di speranza, un seme d’amore, l’esempio di uno slancio generoso - come diceva - ad communem utilitatem”.
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