martedì 16 luglio 2019
Settantacinque anni fa, dopo la Liberazione di Roma, gli Alleati sferrarono un forte attacco all’esercito tedesco in fuga verso nord: nell’Argentario si consumò una delle battaglie più cruente
Il cantiere navale di Porto Santo Stefano bombardato /  National Archives and Records Administration

Il cantiere navale di Porto Santo Stefano bombardato / National Archives and Records Administration

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Una storia dimenticata tra le pieghe del tempo. Uno scontro cruento conosciuto dagli abitanti del luogo come Battaglia della Nunziatella. Si consumò dal 10 al 12 giugno 1944 nei pressi di Poggio Capalbiaccio, ma tutto restò chiuso nel cassetto dei ricordi, almeno fino al 20 luglio dello stesso anno quando iniziò il passaparola di quanto accaduto: alle scene strazianti di persone che lasciarono le loro case per scappare dalla guerra si alternarono atti di eroismo quotidiano della popolazione locale e di alcuni militari statunitensi.

Tutto avvenne lungo la via Aurelia, a pochi chilometri dalla capitale liberata dagli anglo-americani. Un episodio che Alessandro Busonero, ufficiale della Marina militare e giornalista, ha scovato negli archivi americani e che racconta grazie alla ricostruzione dei pochi testimoni rimasti come Giovanni Damiani «per mantenere viva la memoria e il ricordo».

Dopo la Liberazione di Roma il 4 giugno del 1944, spiega Busonero «gli Alleati sferrarono un forte attacco all’esercito tedesco che in fuga verso nord, difese con i denti ogni singola postazione sul territorio italiano fedeli all’ordine di arretrare combattendo impartito dal generale Albert Kesselring comandante delle forze tedesche in Italia. È in questo contesto che si inserisce la ricostruzione di quel periodo nel territorio della Costa d’Argento, visto attraverso gli occhi di chi lo ha vissuto in prima persona». Tutto cominciò il giorno in cui alcuni soldati Usa furono inviati in ricognizione lungo l’Aurelia per verificare la consistenza delle forze tedesche. Poco prima di giungere al Poggio di Capalbiaccio, i nazisti fecero fuoco uccidendo tre soldati americani. Giovanni Damiani, all’epoca appena quindicenne, si trovò ad essere un adolescente sfollato al Tricosto da Porto Ercole con la famiglia: «Gli anziani del borgo si riunirono e presero una decisione: dovevamo andar via. Qui ci sono le postazioni tedesche e questo significa che ci saranno degli scontri a fuoco – ricorda Giovanni Damiani –. Ci sarà sicuramente una battaglia quindi meglio andarsene ».

Uomini, donne e bambini iniziarono a muoversi con la mambrucca, un grosso carro trainato da buoi. «La sora Amelia Danesi, proprietaria di parte del Tricosto, che ci aveva permesso di abitare nel magazzino dove eravamo sfollati, si incamminò con il calesse trainato da un cavallo e insieme con lei c’era la mi mamma e Pina la mia sorellina piccola nata ad aprile a Porto Ercole».

La destinazione era la località Marruchetone tra Capalbio e Manciano, nell’entroterra dove la signora Danesi conosceva ed era amica dei proprietari della tenuta del Marruchetone. Lungo il tragitto, ad un posto di blocco tedesco, gli uomini furono fatti scendere dalla mambrucca e costretti a tornare indietro senza le donne dividendo di fatto le famiglie. «Nei giorni degli scontri, tra il 10 e il 12 giugno si sentivano il tuonar dei cannoni e degli spari. Mia mamma con la sorellina sempre stretta a se trovò riparo dentro un fosso», racconta Giovanni.

In seguito la famiglia si riunì e si tirò un sospiro di sollievo. Ma quei giorni per lui e per gli abitanti della zona rimasero indimenticabili come quelli in cui lo stesso Giovanni incontrò un militare italoamericano la mattina del nove giugno: «Vedemmo arrivare da sud una jeep con quattro soldati intenti a stendere cavi telefonici lungo la strada – racconta Giovanni –. I cavi telefonici avevano l’obiettivo di mantenere le comunicazioni tra le truppe in movimento. Ci rendemmo subito conto che si trattava di soldati americani e ci volle poco a scoprire che erano molto differenti dai soldati tedeschi non solo nell’uniforme indossata, ma soprattutto nel comportamento e dall’approccio umano con i civili. Quando giunsero presso di noi, fermarono la jeep e ci salutarono con grande cordialità offrendoci cigarette and chocolate».

Uno di loro, un certo Paolo Mazzei, era di origini napoletane. «Parlava in un italiano caratterizzato dal dialetto partenopeo – aggiunge Giovanni –. Cercammo nelle difficoltà della lingua di dirgli di non proseguire perché a poca distanza, circa 300-400 metri, sul poggio di Capalbiaccio, erano appostati i tedeschi. I soldati americani avvisarono i loro superiori per informarli di quanto appreso, ma inspiegabilmente proseguirono dicendo che secondo le loro fonti non erano presenti in zona truppe tedesche sino a Grosseto. Non percorsero che poche centinaia di metri. Poi una raffica di mitragliatore tedesco li investì. Alcuni di noi ragazzi e degli adulti tra cui mio padre Enrico e Bruno Margiacchi, ci mettemmo al riparo dai proiettili che sentivamo molto vicini. Nonostante gli spari fossero terminati, rimanemmo nascosti e in silenzio. Qualche ora dopo – ricorda Giovanni – udimmo uno straziante richiamo. Qualcuno stava chiedendo aiuto e un medico. Con molta prudenza nel timore che i tedeschi potessero sparare anche a noi, Giovan Battista detto Titta e Bruno Margiacchi andarono a recuperare il soldato americano, che ironia della sorte era proprio quello di origine italiane. Un proiettile gli aveva oltrepassato il polpaccio destro. Venne soccorso e nascosto nella cantina della signora Amelia dietro due grosse botti e alcuni tini. Degli altri soldati, uno riuscì a mettersi in salvo, ma gli altri tre rimasero uccisi. I corpi senza vita di due soldati furono trovati ancora sulla jeep e un altro anch’esso ferito mortalmente, a terra a pochi metri di distanza. Le salme furono poi prese dai militari americani nella giornata dell’11 giugno. Era domenica. L’italo-americano si salvò. Venne trasportato in un ospedale da campo a Montalto di Castro».

Gli americani della 36ª divisione di fanteria “Texas” continuarono l’avanzata verso Grosseto e, con grande sorpresa, arrivati il 13 giugno a Porto Santo Stefano, trovarono intatti i depositi di carburante della Regia Aereonautica. Da questo porto partirono nei giorni seguenti i rifornimenti di carburante di tutta la 5ª Armata Usa in Italia. Ciò permise agli Alleati di avere un grande appoggio per le truppe che avanzarono fino alla conquista di Livorno liberata il 19 luglio. Il bilancio fu però drammatico: dall’8 dicembre 1943 al 7 giugno 1944 Porto Santo Stefano subì 108 bombardamenti in oltre 50 giorni con 165 vittime, di cui 87 per la Marina, 26 per l’Esercito e 54 civili, oltre che la distruzione del 96 per cento del patrimonio edilizio. Anche per questo nel 1961 la cittadina del comune di Monte Argentario fu insignita della Medaglia di bronzo al valor civile.

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