Perché i lavoratori italiani sono i più infelici?
martedì 30 aprile 2024

È una fase storica particolarissima per il mondo del Lavoro. Subito dopo l'uscita dalla pandemia si è materializzata una rivoluzione nata “dal basso”, dalla psicologia dei lavoratori: per l'intera Generazione Z, per gran parte della Generazione dei Millennials e per una parte della Generazione X il Lavoro non è più il “sovrano assoluto” delle proprie vite, come era stato invece per tutte le generazioni precedenti. E tutto ciò accade mentre si intravede già una seconda rivoluzione che entro pochi anni procederà “dall’alto”, attraverso i nuovi modelli produttivi delle imprese, stravolgendo il mondo del lavoro: l'affiancamento dell'Intelligenza Artificiale a quella umana. Due rivoluzioni quasi simultanee, provenienti da due direzioni opposte: non era mai successo nella storia contemporanea del Lavoro.

Se dell’IA molto si discute, tra profezie e catastrofismi, la prima rivoluzione invece è sostanzialmente ignorata. Eppure, come ho scritto ne L’era del Lavoro Libero (Rubbettino), è evidentissimo il cambiamento profondo della gerarchia dei bisogni dei lavoratori: al primato finora indiscusso di retribuzione e carriera si sostituiscono oggi in testa alle aspettative dei lavoratori la possibilità di realizzare un vero worklife balance rendendo più flessibile il lavoro, la necessità di avere in azienda supporti concreti alla genitorialità, l’aspirazione a un maggior coinvolgimento rispetto all’andamento economico della propria azienda. Ma la maggior parte delle nostre aziende sembra non essersene accorta, continuando a gestire il rapporto con i lavoratori secondo gli schemi del Novecento.

Accanto al noto divario tra competenze richieste dalle imprese e profili disponibili sul mercato, oggi esiste dunque un altro mismatch ugualmente profondo e pericoloso: il fossato che divide i nuovi bisogni espressi dai lavoratori dai vecchi modelli organizzativi delle imprese. Non a caso i lavoratori italiani sono i più infelici al mondo: secondo autorevoli indagini internazionali, soltanto il 4% degli impiegati italiani si sente appagato sul lavoro.

Negli ultimi 48 mesi gli strumenti di flessibilità del lavoro introdotti durante la pandemia sono stati protagonisti di una “corsa del gambero”: a causa delle scelte del legislatore e delle decisioni aziendali, oggi smart working e home working sono tornati a essere un’eccezione. Ma non è il ritorno alla normalità. È piuttosto il risultato della vecchia cultura manageriale del command and control: il capo è convinto di poter esercitare il suo potere sui collaboratori solo quando li ha fisicamente di fronte a sé per le 8 ore canoniche. Pazienza se poi uno di loro è il campione mondiale di Tetris...

Per affrontare la rivoluzione in corso nel mondo del Lavoro, e allo stesso tempo per tirare fuori l’Italia dalle secche di una produttività stagnante da 20 anni, c’è bisogno di abbracciare una nuova cultura fondata sugli obiettivi, più che sul tempo della prestazione. Anche perché all’interno di una organizzazione complessa è impossibile prevedere tutto: Von Clausewitz lo chiamava “attrito”, la differenza tra realtà e aspettativa, che si manifesta ogni volta che una variabile all’interno del processo produttivo non è perfettamente prevedibile. Ancora oggi aziende e organizzazioni rischiano di fallire proprio nella gestione dell’attrito, che si illudono di poter gestire dando istruzioni più dettagliate agli operativi. Ma non è così: “l’attrito” può essere gestito solo facendo leva sulle capacità dei collaboratori. Comunicando loro i risultati da raggiungere e quelli da evitare, ma lasciando loro decidere modalità, procedure, attività necessarie per fare “goal”.

Oltre a questa scossa culturale servono strumenti innovativi come la Partecipazione dei lavoratori alle imprese, partendo dalla meritoria iniziativa della Cisl di Luigi Sbarra che il Governo Meloni potrebbe presto decidere di sposare. La Partecipazione consentirebbe di superare finalmente la feroce contrapposizione tra capitale e lavoro, affermando il principio che il successo delle imprese (che funzionano) dipende in modo rilevante dall’impegno dei lavoratori. In questa fase storica è fondamentale puntare sulla Partecipazione economica, incentivando fiscalmente la diffusione mediante contrattazione aziendale di una retribuzione aggiuntiva legata ai risultati dell’azienda (retribuzione variabile, Mbo, azionariato dei dipendenti) a favore dei lavoratori a tutti i livelli. Oggi in Italia soltanto 220mila lavoratori sono coinvolti nel ruolo di azionisti delle imprese in cui lavorano, su un totale di 7 milioni nella Ue: i lavoratori italiani coinvolti sono meno di un decimo rispetto a Francia, Germania e Regno Unito.

Oggi i lavoratori cercano un lavoro “sostenibile”. Realizzarlo davvero è la grande sfida che ci attende da oggi al prossimo Primo Maggio.

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