giovedì 25 aprile 2024
La testimonianza dell'insegnante e scrittore nella Casa circondariale in provincia di Enna: quando la giustizia riparativa assume la forma di un albero, che germoglia, cresce, e dona ombra a tutti
Il carcere di Piazza Armerina

Il carcere di Piazza Armerina

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«Ho letto gli articoli sul carcere Beccaria con tanto dolore». Così mi ha scritto Donata Posante, Direttore della Casa Circondariale di Piazza Armerina, nel cuore della Sicilia. Donata è una persona piena di luce, che ho avuto modo di incontrare pochissimi giorni fa, quando, come scrittore, sono stato invitato in quel carcere da una educatrice, che con un gruppo di detenuti aveva letto uno dei miei romanzi. La prima volta che ero stato a Piazza Armerina ci ero andato per visitare la celebre Villa romana del Casale, con i suoi strepitosi mosaici, tra i più belli al mondo.

Allora non immaginavo nemmeno lontanamente che sarei tornato lì non per visitare le bellezze della Sicilia, ma per entrare in un luogo dove le persone sono recluse. E men che meno avrei immaginato che quel luogo stesso si sarebbe svelato ai miei occhi come un capolavoro infinitamente più grande, grazie a molte persone che sanno guardare alla realtà con occhi pieni di speranza e di futuro e grazie al lavoro di una Polizia Penitenziaria disponibile, sensibile e dotata di grande umanità. Non mi capita spesso di entrare in carcere, ma fin dai primi passi nella struttura non mi sono sentito oppresso, nonostante le porte con le pesanti sbarre che si aprivano e chiudevano dietro di me. Mi sono ritrovato in uno spazio accogliente, con le pareti pieni di libri, nel quale i detenuti erano seduti insieme ai volontari, agli insegnanti, agli educatori, agli operatori della struttura e al Direttore stesso.

Incontrarli è stato bellissimo. Abbiamo parlato di libri, di lettura, di speranza, di riscatto. Un detenuto che scrive poesie stupende me ne ha regalate due, struggenti e fortissime. Mi ha detto: «Leggendo il tuo libro sono riuscito con la testa a uscire di qui». Un altro mi ha chiesto che differenza ci fosse tra l’odio e il rancore. Non ho saputo rispondergli. Lui mi ha raccontato che da tempo aveva smesso di odiare, ma il rancore per essere rinchiuso no, non passava: che non riusciva ad adattarsi a quella vita, che il pensiero della libertà di prima era la spinta grazie alla quale riusciva a tirare avanti. Mi hanno portato in dono un bellissimo elefante di ceramica, un’opera d’arte realizzata dai detenuti stessi in uno dei molti laboratori a cui partecipano: uno di loro mi ha spiegato con orgoglio che l’elefante è il simbolo di Catania, la sua città. Alla fine dell’incontro a tutti è stato regalato un segnalibro come ricordo. Mi hanno chiesto di fare loro delle dediche su quei segnalibri. Un giovane uomo mi ha domandato se potessi rivolgere la dedica a sua figlia tredicenne: « Abbiamo letto il tuo romanzo qui dentro», mi ha spiegato, «e io glielo ho consigliato: lei lo ha letto e ci ha trovato lo spunto per scrivere la sua tesina di terza media».

Per molto tempo, quel giorno e nei giorni successivi, non sono riuscito a smettere di pensare con commozione a lui e a quella ragazza coetanea di mia figlia, che fuori, nel mondo delle persone libere, leggeva lo stesso libro del padre chiuso in carcere. Forse quel libro è stato un ponte tra loro, forse ha generato una misteriosa connessione, una corrispondenza, un abbraccio distante ma granitico. A proposito di abbracci, quel pomeriggio ne ho dati e ricevuti tanti. Abbracciando quelle persone, stringendo le loro mani, ho sentito la loro umanità ferita dentro di me. Non so perché fossero lì, non so quale dolore abbiano inferto e subito, so però che non mi sono sentito migliore di loro nemmeno un po’. Mi sono anzi sentito confortato, perché mi hanno fatto riscoprire la mia essenza di essere umano pieno di limiti e di errori, eppure bisognoso di una instancabile misericordia, di un amore gratuito che mi precede. Alla fine c’è stato un rinfresco: eravamo tutti insieme, detenuti e volontari, insegnanti ed educatori, personale del carcere.

Ho provato a prendere un biscotto, ma un detenuto mi ha bonariamente rimproverato: «Metti giù, quello lo trovi anche al bar. Prendi una fetta di questa torta, l’ho fatta io!». Era squisita. Prima di uscire ho stretto tante mani. Ho riso e pianto. Ho parlato a lungo con Donata, il Direttore di quel carcere. Mi ha raccontato di una sezione dove le porte sono aperte e i detenuti conducono vita comune. Mi ha mostrato la palestra dove si allenano per mantenersi in forma. Mi ha parlato delle molte attività proposte, perché quello sia un luogo di vita, non solo di dolore. La parola che ha usato più spesso per descrivere la Casa Circondariale non è stata “carcere”, è stata “comunità”.

E davvero quella deve essere per molti una comunità, un luogo dove il tempo non viene bruciato inutilmente. Marianna Cacciato, una bravissima educatrice, mi ha raccontato di un ex detenuto che, una volta uscito di prigione, le ha chiesto spaesato: «E adesso?». «E adesso sei libero!» gli ha risposto lei. Lui se n’è andato, incredulo, ma nei giorni successivi è sempre tornato al carcere per incontrare le persone che lo avevano accompagnato negli anni lì dentro, come se fossero la sua famiglia: ogni tanto torna ancora. Spesso quando pensiamo alla giustizia immaginiamo una figura bendata, con la spada in un pugno e la bilancia nell’altra mano. Una donna che si occupa di giustizia riparativa un giorno mi ha fatto notare che quella immagine di giustizia è indifferente, non guarda in faccia la persona, ignora la sua storia passata e non si interroga sul suo futuro. Di fronte a una colpa commessa, attribuisce una pena: a un dolore somma un altro dolore, perché i piatti della bilancia tornino in pari, ma il risultato è che il dolore è aumentato.

La giustizia può però assumere un’altra forma: quella di un albero, cioè di una creatura viva, che germoglia e cresce, che dona ombra a tutti, che ospita tutte le storie. La giustizia riparativa è proprio questo: non è una forma di buonismo, non è pietismo a buon mercato che prova pena per il colpevole dimenticando la vittima, ma è una giustizia più alta, che punta alla responsabilizzazione autentica di chi ha sbagliato, che vuole portare consapevolezza per generare tutte le forme di riparazione possibile. Una giustizia che non rimuove le colpe, ma che non inchioda l’intera vita di una persona a esse. Una giustizia per la quale le persone non sono solo gli errori che commettono, ma anche e soprattutto la loro possibilità di riscatto. Una volta ho sentito dire a un amico ex detenuto: «Non sono cambiato per le botte subite in carcere. Sono cambiato per lo sguardo carico di umanità che un Direttore di carcere ha avuto su di me. Sono cambiato quando un sacerdote mi ha chiamato fratello».

C’è una giustizia che schiaccia e che sa di vendetta e una giustizia che sana e genera futuro. Una giustizia indispensabile per un mondo migliore. Un mondo migliore che non è solo utopia: in quel mondo migliore, a Piazza Armerina, io sono stato.

Insegnante e scrittore

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