martedì 30 aprile 2024
Tensioni alla Columbia di New York, dove 200 ragazzi hanno occupato un edificio dopo l'ordine di sgomberare l'accampamento. Gli studenti ebrei invitano al dialogo
La protesta nelle università americane

La protesta nelle università americane - ANSA

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Circa 200 manifestanti della Columbia University a Manhattan, dopo giorni di proteste, hanno occupato un'ala dell'edificio, barricandosi all'interno, rompendo finestre e tenendo in ostaggio alcuni dipendenti prima di rilasciarli. Decine di altri manifestanti si sono radunati all'esterno, formando una catena umana per bloccare le porte e cantando canzoni inneggianti alla Palestina. L'occupazione è avvenuta dopo che era stato ordinato loro di sgomberare entro questa mattina l'accampamento esterno. Anche la Cornell University, sull'esempio della Columbia, ha cominciato a sospendere gli studenti che occupano il campus nell'ambito della proteste pro-Gaza. Lo ha annunciato la presidente dell'ateneo dello stato di New York, Martha Pollack.

«Tutti fanno paragoni con il ’68, ma la nostra protesta è ben più pacifica e meno dirompente. Non abbiamo mai impedito lo svolgersi delle lezioni né occupato classi. Allora perché ci scagliano contro la polizia contro come se fossimo dei terroristi?». La domanda di Karine, una manifestante pro-Palestina seduta su un prato della Columbia University, rivela la particolarità di questa ondata di proteste rispetto a quelle contro la guerra in Vietnam o l’apartheid che sono partite dalla prestigiosa università di New York. Scandire slogan contro Israele e contro la sua campagna armata nella Striscia di Gaza e denunciare i legami degli atenei Usa con il governo di Tel Aviv va a toccare un nervo estremamente sensibile che negli Stati Uniti è pericolosamente vicino al tabù.

Quando schierarsi contro Israele diventa antisemitismo? Quando mettere a confronto i 1.200 israeliani uccisi da Hamas con le 34mila vittime palestinesi della risposta di Tel Aviv significa sminuire le vite di ebrei innocenti? Quando mettere in dubbio il diritto di Israele di esistere sconfina nel mettere in pericolo le vite degli ebrei?

Non si tratta solo di differenze di idee. Il tema negli Stati Uniti è scottante e ha risvolti politici di tale portata da aiutare a comprendere l’imbarazzo dei presidi degli atenei di fronte ai sit-in.

Finora oltre 900 studenti sono stati arrestati quando le autorità scolastiche hanno chiamato la polizia per disperdere gli accampamenti nei loro campus, infiammando ulteriormente gli animi. L’intervento degli agenti in tenuta antisommossa ha attirato i media di tutto il mondo che hanno filmato scene simili in tutti gli Usa: gli studenti montano le tende per denunciare il sostegno militare Usa a Israele e la catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza.

Vengono allontanati, spesso in modo brutale, su richiesta della direzione universitaria. Ma ritornano, accumulando sospensioni ed espulsioni. La maggioranza dei docenti li sostengono, chiedendo ai rettori di revocare le misure disciplinari, e, in già cinque casi (in California, Georgia e Texas) avviando o approvando mozioni di sfiducia nei confronti dei loro leader. « È scandaloso, un attentato ai diritti civili degli studenti», dice Katherine Franke, docente di legge alla Columbia, mentre sfila insieme a una marea di studenti e professori sotto le colonne della Earl Hall, storico edificio di mattoni, verso l’avenue Broadway. Intanto i parlamentari al Congresso, soprattutto i repubblicani, che sperano di alimentare le fratture all’interno del partito democratico diviso fra il tradizionale sostegno a Israele e la sua anima progressista vicina alla causa palestinese, convocano un rettore dopo l’altro a Washington.

Qui li sottopongono a interrogatori serrati, denunciandoli di non saper mantenere la calma e la sicurezza nei loro atenei. I rettori tornano a casa, lanciano ultimatum, chiamano la polizia e tutto ricomincia. Già due presidenti di università, Claudine Gay di Harvard e Liz Magill della University of Pennsylvania, hanno perso il posto dopo essere comparse a Capitol Hill nei primi tempi della protesta, a dicembre. Donald Trump ha sentito odore di sangue e si è buttato nella mischia sostenendo che il raduno neonazista del 2017 a Charlottesville, culminato nella morte di una donna che protestava contro slogan razzisti dei suprematisti bianchi, fu «una nocciolina» in confronto alle proteste che stanno agitando i campus americani. Joe Biden cerca di tenersi in equilibrio fra “il diritto d’espressione” e il diritto degli studenti ebrei, molti dei quali hanno denunciato l’uso di slogan antisemiti, di sentirsi al sicuro.

Intanto migliaia di laureandi e le loro famiglie rivendicano il diritto a una cerimonia “normale”, senza tensioni né incidenti. Quella della Columbia è in programma per il 15 maggio e per mettersi avanti la presidente Minouche Shafik ieri ha lanciato un nuovo aut aut: i manifestanti che non se ne vanno saranno sospesi. I gruppi di studenti ebrei che si sono uniti alla protesta, però, invitano al dialogo. «Queste università hanno accesso ai migliori studiosi del mondo e a persone che rappresentano punti di vista diversi. Perché non discutere e dibattere tutto apertamente? Una volta che un’università rinuncia a questo, sta mettendo in dubbio la ragione fondamentale della sua esistenza», sostiene Ezra Levinson della Jewish Voice For Peace. Ed è questa contraddizione a rendere le proteste così delicate. È possibile oggi negli Stati Uniti, a sei mesi da un’elezione presidenziale inondata di miliardi provenienti da lobby pro-Israeliane e di fabbricanti di armi, in università che devono proteggere dotazioni multimiliardarie, avere un dibattito aperto su Israele e Palestina?

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