lunedì 6 maggio 2024
È l'inviato di guerra più noto in Israele. Il primo ad entrare nei kibbutz il 7 ottobre, il primo ad entrare nella Striscia. «I terroristi non hanno una divisa e si nascondono tra le macerie»
«Dentro Gaza con i soldati e la mia bodycam»
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«Dopo 30 anni di lavoro tra Bosnia, Ruanda, Siria, Iraq e Congo, pensavo di aver ormai visto già tutto: stupri, decapitazioni, rapimenti, fosse comuni. Mai mi sarei immaginato di rivivere tutto questo in un giorno solo, quando sono arrivato, l’8 ottobre, al kibbutz Nir Oz». Itai Anghel, classe 1968, è l’inviato di guerra più noto in Israele, vincitore di numerosi premi internazionali. Ha coperto i teatri di crisi più difficili in tutto il mondo. Fino al 7 ottobre, quando si è ritrovato a fare l’inviato nel suo stesso Paese. Spesso in missioni embedded, al seguito delle Forze di difesa israeliane.

Lei è stato il primo a entrare nei kibbutz attaccati da Hamas.

Quel giorno sono state trucidate le persone più progressiste del Paese, che avevano dedicato tutta la loro vita al processo di pace. Lo scopo di Hamas era proprio quello di eliminare ogni partner per un possibile dialogo e alimentare l’estremismo. Appena entrato a Nir Oz, come faccio sempre ogni qual volta mi trovo in un Paese in guerra, ho cominciato a filmare qualsiasi cosa vedessi, usando la mia telecamera non solo come strumento per documentare, ma anche per mantenere un minimo di lucidità e distacco di fronte a quell’odore di morte che mi sovrastava come non lo avevo mai avvertito, neppure in Ruanda. Appena uscito dal kibbutz, ho chiesto a chi era con me di prendere la telecamera - che di solito tengo sempre in mano io - e di registrare il mio messaggio, in inglese. Mi sono inginocchiato perché non avevo, letteralmente, la forza per stare in piedi. Ma avevo un'unica certezza: il mondo doveva sapere.

Lei è stato anche il primo, in questi sette mesi, a entrare in profondità nella Striscia, assieme alla stessa unità di soldati che aveva esplorato i tunnel nel 2014, durante “Margine di Protezione”. Come è riuscito a fare questa missione? E in che condizioni di sicurezza?

Ho inoltrato una richiesta speciale per poter seguire un’unità operativa per un massimo di 36 ore. Non mi sono mai staccato dai militari, seguendo minuto per minuto, con la body-cam, il loro operato. L’obiettivo era far saltare un tunnel che collegava una moschea con una scuola dell’Unrwa, a Beit Hanoun. Solo stando dietro di loro, passo per passo, capivo quello che stava succedendo. E purtroppo ho dovuto anche assistere alla morte di uno dei soldati della nostra unità. Il fatto è che le macerie di Gaza sono il luogo privilegiato in cui si nascondono i terroristi, l’insidia è costante. Ho potuto documentare tutto.

L'inviato di guerra israeliano Itai Anghel

L'inviato di guerra israeliano Itai Anghel - Archivio

Quali sono le criticità che ha rilevato, ovviamente nella prospettiva dei militari che ha potuto seguire?

Oggi la maggior parte dei terroristi non indossa una divisa, quindi diventa sempre più difficile combattere in un tessuto urbano di oltre due milioni di abitanti e distribuito su due livelli: quello di superficie e i tunnel, sotto. Idf sta cercando di distruggere le infrastrutture dell’organizzazione terroristica, e di eliminarne la leadership. Tuttavia, si possono uccidere i terroristi ma non le ideologie, specie in un sistema in cui chi dovrebbe occuparsi dell’educazione – l’Unrwa – è spesso connivente con Hamas. Di fatto oggi è impossibile parlare di pace, mentre l’Onu, che dovrebbe garantirla, chiude gli occhi. L’unico modo per sradicare Hamas – come Hezollah in Libano – è coinvolgere altri interlocutori internazionali in grado di ricostruire questi Paesi non solo sul piano economico ma soprattutto sul piano educativo. Anche perché ormai l’estremismo islamico ha superato i confini del Medio Oriente e ha già raggiunto Europa a Stati Uniti.

Cos’ha trovato di diverso a Gaza rispetto a dieci anni fa?

Soprattutto il fatto che i miei amici palestinesi, con cui sono tutt’ora in ottimi rapporti, si autocensurano per timore di essere accusati di tradimento, e quindi di essere uccisi dal regime. Gaza non è più quella in cui io stesso ho lavorato e vissuto.

Il fronte nord, con il Libano, è sempre più caldo. Uno dei suoi ultimi documentari è stato girato sul confine, nella cittadina di Metula, evacuata da ormai sei mesi.

Metula è stata fondata nel 1895, molto prima della fondazione dello Stato. Si trova talmente vicina al confine che Hezbollah, con il binocolo, è in grado di osservare e decidere, con un grilletto, della vita di chi ci abita. Non si sa ancora se e quando chi ci viveva tornerà mai ad abitaci. E non si tratta solo di questa cittadina, ma di tanta parte di Israele, che era già uno dei Paesi più piccoli al mondo e ora si trova dimezzato. Abbiamo lasciato i ghetti dell’Europa nazi-fascista per ritrovarci in un ghetto in Medioriente. Hamas e i suoi alleati sono riusciti a colpire il sogno sionista e la garanzia di uno Stato per gli ebrei. Ho cominciato a studiare in modo approfondito la storia della Shoah solo dopo essere stato in Bosnia e aver visto le fosse comuni, che mi hanno portato a ripensare alla storia della mia famiglia: sette dei miei parenti sono stati uccisi ad Aushwitz. Quando ero piccolo, la mia famiglia ha sempre cerato di proteggermi e di non parlarne troppo, perché all’epoca l’agenda portata avanti anche dell’allora primo ministro David Ben Gurion era quella di guardare avanti, creare l’immagine del sabra – il fico d’India, spinoso al suo esterno ma dolce al suo interno, che simboleggia gli israeliani ­- , del “new jew”, forte e coraggioso e, finalmente, protetto da uno Stato. Oggi siamo tornati indietro di ottanta anni e il Paese che ci era stato dato per garantire la nostra incolumità è minacciato della sua stessa esistenza. Per questo siamo dovuti tornare a difenderci, sia a livello nazionale che internazionale.

Alla luce di questi sette mesi, come pensa possa evolvere questo conflitto, sia su scala locale che globale?

Sette mesi fa non avrei mai immaginato che questo conflitto sarebbe stato tanto lungo e con tali ripercussioni a livello internazionale. Non solo come giornalista, ma anche come cittadino israeliano, ci sono giorni in cui mi chiedo se abbia senso far crescere mio figlio qui ma, al tempo stesso, quando mi guardo attorno, vedo un mondo che non riconosco più. Inclusi gli Stati Uniti, Paese di cui sono cittadino e in cui sono nato quando i miei genitori insegnavano alla Columbia University, che oggi non è certo più un luogo di divulgazione del sapere. Purtroppo, la volontà di dividere il mondo in bianco e nero è un fenomeno globale. Ho studiato in Italia, che è uno dei Paesi che amo di più, e quando alcuni miei amici italiani mi hanno mandato il video della marcia per il 25 aprile con la bandiera palestinese accanto a quella italiana mi sono reso conto dell’incredibile cortocircuito culturale che sta avvenendo ovunque. Come cittadino del mondo, mi sembra di aver perso una famiglia intera.

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