lunedì 5 dicembre 2016
Il giudice tutelare di Cagliari ha autorizzato l'Asl di Cagliari a staccare i macchinari che tenevano in vita l'ex presidente della Provincia Walter Piludu, morto il 3 novembre
Walter Piludu

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La salute è (anche) star bene con se stessi. La nostra Costituzione permette d'interrompere su richiesta alimentazione e idratazione
artificiali. Di tutto ciò il Servizio sanitario nazionale deve essere garante. Sono queste le motivazioni con cui un giudice tutelare di Cagliari, Maria Isabella Delitala, ha autorizzato l'Asl a staccare i macchinari che tenevano in vita l'ex presidente della Provincia. Walter Piludu è morto il 3 novembre, ma le motivazioni del provvedimento che ha concesso lo spegnimento dei macchinari sono state divulgate solo oggi.

Il "comunista di ferro" aveva 66 anni, e da 5 combatteva contro la Sla. Immobile, attaccato a un respiratore, alla politica aveva chiesto di poter morire, anche tramite i radicali dell’Associazione Coscioni. Per farlo si era servito di uno strumento a comandi oculari, e il suo appello era arrivato fin sulle scrivanie di Berlusconi prima a Renzi poi. Ma solo una lettera aveva ottenuto risposta: quella inviata a papa Francesco, riscontrata da monsignor Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato. Una dimensione colpiva in quella lettera: il senso che Piludu ancora vedeva nella vita e negli affetti familiari, uno stile apprezzato anche dall’arcivescovo di Cagliari Arrigo Miglio che con lui aveva allacciato un dialogo personale. Piludu se n'è andato quando ha deciso, come desiderava. Prima sedato. Poi liberato dai macchinari che gli fornivano aria, acqua e cibo.

Senza il provvedimento del giudice, chi l’ha materialmente fatto avrebbe potuto risponderne penalmente: l'omicidio del consenziente è un reato punito col carcere.

Ma Delitala ha pensato di costruire un altro ragionamento, innanzitutto dando una propria definizione di salute: che non sarebbe solo «assenza di malattia» ma pure «benessere psico-fisico». Realtà, questa, «che coinvolge la percezione che ciascuno ha di sé, aspetti interiori della vita e la relazione con altri». Il giudice tutelare ha poi interpretato la Costituzione: «Tutela il diritto alla salute e anche quello ad autodeterminarsi – si legge nel provvedimento – a scegliere se fare o meno un trattamento sanitario». Questo varrebbe anche se la rinuncia alle cure «porta alla morte».

E pure se il rifiuto riguarda «trattamenti vitali»: «Per legge non si possono imporre cure», scrive Delitala. Un via libera all'eutanasia? Per Delitala, che cita la Cassazione, si sarebbe semplicemente trattato di «lasciare che la malattia» facesse «il suo corso». In questa prospettiva, dunque, sembra che il giudice abbia voluto evitare l'accanimento terapeutico. E cioè la prosecuzione di cure al di là di ogni ragionevole speranza di beneficio. Cosa sia successo a quel capezzale di preciso non è noto: la famiglia si è limitata a uno scarno comunicato, e nulla ha voluto aggiungere. Certo è che il provvedimento del giudice parla pure di «un diritto» ad «andarsene senza soffrire: sedati per non sentire ansia o dolore».

Un diritto che l'Asl dovrebbe concretizzare «accompagnando e accudendo il malato». Cita il Tar Lombardia, il giudice Delitala, ricordando il risarcimento di 143mila euro che i giudici amministrativi hanno imposto alla Regione a favore di Beppino Englaro. Il fatto dannoso in questo caso starebbe tutto qui: nonostante il via libera della Cassazione, nessuna struttura lombarda aveva potuto sospendere la somministrazione di acqua e cibo alla figlia Eluana. L'ordine era giunto dal Pirellone, impegnato a salvare la 38enne che dal 1992 si trovava in stato vegetativo. Il padre aveva allora cercato disponibilità altrove, trovandola nella clinica di Udine dove la giovane si spense il 9 febbraio 2009. Poi aveva chiesto i danni alla Lombardia, spese di viaggio comprese. E il Tar, lo scorso aprile, gli ha dato ragione. Una sentenza questa ora al vaglio del Consiglio di Stato.

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