martedì 30 novembre 2010
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«Giancarla, tu sei troppo coinvolta!» L’amico per telefono mi lancia questo schiaffo violento, a mano aperta, sul viso, quasi a dirmi che nella mia condizione non posso essere obiettiva. Ho appena cercato di spiegare, con la pochezza umana delle parole, quanto sia stato doloroso vedere che a Beppino Englaro è stato concesso tanto spazio per cercare consensi e comprensione al gesto estremo di togliere la vita alla figlia, mentre è stata negata la possibilità di replica a chi continua, giorno dopo giorno, a combattere per questa vita pur così difficile.«Tu sei troppo coinvolta». Certo che lo sono. Mio figlio Daniele, quando aveva quattro anni, per una caduta in piscina ha subito un’anossia da annegamento e da sette anni è in stato vegetativo. Da sei anni lo assistiamo in casa, aiutati dagli altri due figli, dai terapisti e dai volontari che hanno imparato ad amarlo, pur nel suo stato di silenzio. Lo assistiamo giorno e notte: dopo giornate intense che si srotolano tra fisioterapia, logopedia, alimentazione, visite, igiene personale, io e mio marito ci alziamo quattro o cinque volte a notte, se va bene; se va meno bene, anche una decina. E non devo sentirmi coinvolta, quando sento dire – da chi non ha mai accudito un solo giorno a casa la propria figlia – che chi si prende cura di queste persone le violenta? Non ditemi che il gesto di Englaro è stato d’amore. Le persone che amano ti stanno vicino, nel momento del dolore e della sofferenza, anche se lo strazio è enorme, anche se ti senti come se un carro armato ti passasse sul cuore, anche se dieci volte al giorno pensi che non ce la puoi fare, anche se continuamente vorresti essere tu al suo posto in quel letto. È la disperazione e non l’amore che porta a chiedere la morte; è l’incapacità di accettare che la vita può cambiare anche tragicamente. Posso capire, ma non condividere. Amore è la dolcezza di mia figlia Donata, diciottenne, che al mattino prima di andare a scuola viene allegramente a salutare il fratellino, o dice a me e mio marito di uscire una sera perché con Daniele ci sta lei. Amore è la delicatezza di mio figlio Stefano, di ventiquattro anni, che mi aiuta a spostare Daniele per evitarmi la fatica o che mi accompagna nelle visite per suo fratello. Amore è il sostegno e l’aiuto continuo di mio marito che in tanti anni di fatica, dolore, ma – lasciatemi dire – anche di gioia, non ho mai visto perdere la pazienza. Amore è quello che vedo negli occhi delle tante persone che in modo gratuito e continuo si prodigano ad aiutarci e che dicono di ricevere da Daniele molto più di quanto danno.Il mio pensiero va ai tanti bambini, compagni di quella scuola che Daniele, pur in «stato vegetativo», ha continuato a frequentare: sono le sue mani, quando lo guidano e lo aiutano nei lavoretti scolastici; sono i suoi passi, quando con naturalezza spingono la sua carrozzina. Il mio pensiero va ai tanti amici dei miei figli maggiori: hanno continuato a frequentare la nostra casa dopo l’incidente e con la loro presenza li hanno sostenuti. Nel tempo sono aumentati e spesso si trovano da noi a studiare o a vedere una partita. Sanno che Daniele è parte importante della nostra famiglia – vorrei dire il fulcro – e lo vedono per quello che è: un bambino speciale. E tra loro c’è chi si offre di aiutare. Ma la cosa interessante, riferitami da mia figlia, è che, quando tra loro si è parlato del caso Englaro, nessuno di questi ragazzi aveva capito che la situazione fosse la stessa (nessuna macchina, nessuno stato terminale) «perché – dicevano – tuo fratello è vivo». E allora sì, sono veramente «troppo coinvolta» e conosco troppo bene il vivere quotidiano con Daniele per non aver diritto di affermare che le persone come lui vivono, semplicemente «vivono», e hanno tutti i diritti di farlo. Non rendiamoci responsabili di indurre i nostri giovani a credere che la vita sia tale solo a determinate condizioni: sarebbe devastante per chi negli anni futuri dovrà confrontarsi anche con dolori e difficoltà.
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