giovedì 14 febbraio 2013
Rigettando il ricorso italiano contro la diagnosi preimpianto, la Corte dei diritti umani di Strasburgo ha platealmente voltato le spalle alla sua stessa prassi. Ma il verdetto non obbliga il nostro Paese alla revisione della legge 40.
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Dunque la Corte di Strasburgo ha detto no. Non sarà possibile accedere alla Grande Chambre (il secondo grado) della Corte europea dei diritti dell’uomo per riesaminare il caso Costa-Pavan. In primo grado i coniugi, non affetti da sterilità e portatori sani di fibrosi cistica, avevano ottenuto dalla Corte la possibilità di accedere alla provetta e la condanna del divieto di diagnosi preimpianto. Peraltro, un divieto di cui in Italia alcuni mettono in dubbio l’effettiva sussistenza, ma che la presente causa conferma essere chiaramente contenuto nella legge 40. Ed è proprio l’articolo 43 della Convenzione a prevedere che le richieste di rinvio dinanzi alla Grande Chambre siano previamente esaminate da un collegio di cinque giudici, che solitamente non motiva le sue decisioni.
Un documento del Consiglio d’Europa inviato a tutti gli Stati «contenente chiare indicazioni sulle cause che rischiano di essere rigettate e su quelle che potrebbero essere accolte» afferma che dal 1988 al 2011 il collegio ha esaminato 2.129 richieste di rinvio. Il 40,01% proveniva dai governi convenuti. Solo una piccola parte del totale è però riuscita a superare il filtro preventivo e ad approdare alla Grande Chambre: 110 richieste (il 5,16%). Tra i requisiti per poter accedere alla Grande Chambre c’è quella di sollevare nuove questioni giuridiche. Il documento cita sei casi esaminati anche dalla Grande Chambre, tra cui: Evans c. Regno Unito (sull’impianto di un embrione dopo il ritiro del consenso da parte del donatore di gameti); Dickson c. Regno Unito (diritto di accesso all’inseminazione artificiale per i detenuti); S.H. ed altri c. Austria, (fecondazione in vitro). Tre casi sulla fecondazione artificiale, che «data la loro originalità e il dibattito che suscitano nella società e nei media, devono essere oggetto di un esame tra i più attenti» e che rendono ancora più sconcertante il diniego per la richiesta italiana.
Ormai il no alla possibilità di impugnare ha reso definitiva la sentenza di primo grado. La questione passa ora all’Italia perché una legge italiana giudicata contraria alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo non è per questo automaticamente incostituzionale e quindi da eliminare. Proprio alla fine del 2012 la Corte costituzionale stessa ha trattato questo argomento in una sua importante sentenza. «Si tratta – spiega Filippo Vari, costituzionalista all’Università europea di Roma – di una decisione relativa alle cosiddette pensioni svizzere, nella quale la Corte ha sostanzialmente rigettato la questione di legittimità costituzionale propostale in presenza di una sentenza della Corte di Strasburgo di condanna del nostro Paese. La Consulta ha ritenuto che il giudice europeo non avesse valutato in maniera adeguata lo scopo della disciplina italiana. Ha dunque deciso di dichiarare infondata una questione relativa alla normativa italiana ritenuta contrastante con la Cedu. Questo vuol dire che adesso relativamente alla legge 40 l’ultima parola spetta alla Corte Costituzionale che si troverà a giudicare in presenza di una isolata sentenza di una delle sezioni della Corte europea che contiene gravi errori sulla funzione dell’aborto in Italia e sul rapporto tra l’aborto e la procreazione artificiale. E che inoltre non è chiara sulle ragioni per le quali il divieto di acceso alla tecniche per le coppie non sterili sarebbe in contrasto con la Cedu».
I giudici di Strasburgo ravvisano un’incoerenza tra il divieto della legge 40 e l’aborto. «Catania fu teatro dei primi scontri relativi alla legge 40 – ricorda Giovanni Di Rosa, ordinario di diritto privato nell’ateneo cittadino – quando già nel 2004 una coppia presentò il primo ricorso contro la diagnosi preimpianto, ancora prima che le linee guida fossero emanate. In quella prima sentenza sulla legge il giudice chiarì che è errato equiparare la procreazione assistita all’aborto perché si tratta di due fattispecie diverse; la 194 prevede come presupposto una gravidanza in atto e un pericolo attuale per la salute della donna, mentre nella fecondazione assistita si ha una potenziale gravidanza e un pericolo astratto. Il legislatore ha volutamente mantenuto distinte queste due situazioni perché i profili di riferimento sono diversi». Sempre a Catania un mese fa è stata emessa un’altra sentenza sulla legge 40, che rigetta una richiesta di eterologa: «Le sentenze emesse finora sulla legge 40 sono numerose proprio perché ciascuna vale solo per il singolo caso. Anzi, le coppie che vedevano emettere sentenze di giurisprudenza eversiva, come purtroppo è accaduto in alcuni casi, sono state spinte a presentare a loro volta un ricorso, anche se la legge chiaramente vietava ciò che chiedevano».
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