sabato 26 gennaio 2013
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Trecentomila euro: crescere un figlio – e si parla solo delle pure spese di mantenimento – costa come una villetta (senza pretese) in campagna. I calcoli sono aggiornati al 2012 quando ancora la crisi mordeva il freno: ora che galoppa a briglie sciolte è probabile che la parcella presentata ai genitori sia anche più salata. C’era una volta un tempo in cui la prole numerosa era appannaggio delle famiglie meno abbienti che vedevano, sì, moltiplicarsi le bocche da sfamare ma consideravano che ogni bocca si portava appresso l’inseparabile corredo di due braccia abili al lavoro e alla cura. I figli erano un investimento: ci si sacrificava per crescerli confidando che i benefici avrebbero compensato – e superato – i costi. Oggi le famiglie numerose dovrebbero avere lo status che si riconosce alle specie protette, in via d’estinzione. È arcinoto che la gran parte delle famiglie ha un figlio solo (la media nel nostro Paese, una delle più basse al mondo, è 1,42 figli a coppia) oppure due. Tre sono già un’eccezione. «In Italia ancora prevale nella contabilità economica nazionale la cattiva abitudine di vedere nei figli un elemento di costo. Di equipararli a un bene di lusso, che solo i ricchi posso mettere al mondo perché sono gli unici a poterseli permettere». Stefano Zamagni, professore di Economia Politica all’università di Bologna, ironizza – ma non troppo – su un malcostume tutto italiano perché, ricorda, «all’estero quella per i figli è considerata una spesa non di consumo ma di investimento. Un figlio per una famiglia, e per la società tutta, è come un macchinario per un imprenditore. Per procurarselo bisogna mettere in bilancio un esborso iniziale, consapevoli che la spesa sarà compensata da un rendimento futuro. Il profitto. Cioè i ricavi che superano i costi. Ma se nell’impresa  capitalistica – prosegue il professore – è l’imprenditore a intascare quel sovrappiù, con i figli è tutta la società a beneficiarne». Insomma, generare la vita vince la crisi: il messaggio della Conferenza episcopale per la Giornata della vita è lungimirante e «anticipa quel che succederà in Italia. Con questo documento i vescovi – continua Zamagni – dimostrano di essere molto più avanti dei politici». C’è da sperarci che sia davvero un’anticipazione delle scelte future di una classe politica che alla famiglia dedica un’attenzione marginale. «Anticipa, certo. Sarà un passo obbligato invertire la rotta – conferma l’economista – perché come le imprese che smettono di investire e di innovare vanno fuori mercato e falliscono così va in fallimento una società che non punta sulla famiglia e sui figli». Secondo il professore sono tre le ragioni che renderanno impellente intervenire. «A breve non ci saranno più i soldi per pagare le pensioni. Sebbene, alzando l’età pensionabile, la riforma Fornero abbia dato un po’ di respiro al sistema. Ma tra dieci anni – è la realistica previsione di Zamagni – saremo da capo. I conti saranno insostenibili». A far funzionare il meccanismo, fino a oggi, ci hanno pensato gli immigrati che arrivano giovani nel nostro Paese, generano reddito lavorando e quando sono anziani tornano in patria senza pesare sul nostro sistema pensionistico. Non è una novità per nessuno che l’Italia sia un Paese che invecchia a spron battuto. «Chi è creativo? I giovani. Nel nostro Paese stiamo scontando un deficit di innovazione e di imprenditorialità. Ma lo sviluppo si basa sulla conoscenza, sulla competitività, sull’innovazione e sulla creatività. Senza i giovani chi innova? Oggi nessuno intraprende più perché siamo troppo vecchi. Per cominciare una nuova attività – spiega Zamagni – c’è bisogno di un orizzonte temporale lungo a sufficienza. Bisogna potersi immaginare un futuro, in termini imprenditoriali, in cui i ricavi superino i costi. Solo se si pensa che, dopo aver tanto tirato la cinghia, si potranno vedere i frutti del sacrificio si è disposti a rischiare. Ma quando si è vecchi questo orizzonte non c’è». Infine, l’invecchiamento della società si paga in moneta sonante: «Un ultra sessantacinquenne – prosegue l’economista – costa alla sanità quattro volte una persona tra i 25 anni e i 64. Se vogliamo che gli anziani vivano a lungo e in salute dobbiamo spendere parecchio». Si spende parecchio per far sì che una vita si concluda serenamente, si spende parecchio per far sì che una inizi: «Oggi di figli se ne fanno sempre meno e sempre meno quando sarebbe il momento. La tendenza è avere un unico figlio, in tarda età. Senza fare i conti con la natura che, poi, quel figlio non lo fa arrivare. A quarant’anni una gravidanza non è facile, l’orologio biologico e ormonale non va di pari passo con i desideri dei genitori tardivi». Carlo Bellieni – pediatra, neonatologo presso il Policlinico Universitario di Siena – punta il dito su quanti pensano che tutto nella vita si possa programmare a piacimento. Nei tempi, nei modi, nei risultati: «Si rincorre il figlio perfetto e se quello che si porta in grembo non corrisponde ai desiderata non ci si pensa due volte a liberarsene. Il bambino oggi è un diritto, una scelta, un oggetto di consumo e quindi soggiace alle leggi di mercato. Non deve essere difettoso. Non a caso – prosegue il neonatologo – siamo il Paese con il più alto numero di esami per la diagnosi prenatale al mondo. Richieste nella maggior parte dei casi con finalità selettive». I figli, insomma, si posso programmare, rimandare a quando sarà comodo per mamma e papà, e se una volta deciso che è il momento opportuno per procreare si scopre di avere qualche difficoltà a concepire c’è sempre la provetta: «L’aumento della sterilità nei giovani è documentato da numerose ricerche. Siamo esposti senza neppure rendercene conto a mille sostanze che bloccano la fertilità. Dagli ftalati che sono nelle plastiche e nei cosmetici – elenca Bellieni – ai metalli pesanti che infestano carne e pesce, agli insetticidi e ai solventi che hanno un aspetto simile ai nostri ormoni e quando ci entrano nel sangue bloccano la nostra produzione ormonale». E poi ci sono l’inquinamento atmosferico, lo stress, l’alcol, le droghe... «Non esiste nessuna strategia di prevenzione, preferendo gli Stati aprire le porte alla inseminazione in vitro, piuttosto che intervenire alla fonte del problema. Ma la procreazione assistita è estremamente costosa, in termini economici – conclude Bellieni – e anche umani». Una volta aver tanto rimandato, quando arriva il momento giusto mamma e papà non vogliono farsi trovare impreparati: il figlio in arrivo è stato così caricato di aspettative e progetti che non si contemplano delusioni. Né si vuol rischiare di deluderlo: secondo lo psicologo Gustavo Pietropolli Charmet il calo e il rinvio della funzione procreativa dipende «da un eccessivo sentimento di responsabilità. Il bambino è ormai un soggetto molto sindacalizzato, portatore, giustamente, di diritti non discutibili. Così – spiega lo psicologo – la coppia molto spesso fa una scelta masochista, quella di non avere bambini, in nome di questa responsabilità». Si pensa di non essere ancora abbastanza maturi, di non vivere nella casa adatta, che l’impiego è troppo precario: «Il desiderio c’è ma si sente di avere una responsabilità troppo grande – spiega Charmet – e spesso ci si rassegna alla propria presunta inadeguatezza».Convincersi di non sapere – o potere – fare fronte alle tante esigenze di un figlio da allevare, sentirsi inadeguati al compito non è una condizione né rara né ingiustificata. Le politiche a sostegno della famiglia non sono state il fiore all’occhiello di nessuna delle formazioni che si sono alternate alla guida del Paese in anni recenti. L’armonizzazione dei tempi familiari con quelli lavorativi è un obiettivo ancora lontano dall’essere raggiunto o anche solo delineato da contorni precisi. Insomma: la politica è abile a parole, molto meno nei fatti. «Ma un essere umano che non trasmette la vita non realizza a pieno la sua umanità, le persone che non hanno relazioni umane significative, ovvero la coniugalità, la maternità e la paternità, si accontentano di un’umanità incompleta». Per Marta Brancatisano – docente di Antropologia duale presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare – le relazioni significative «sono quelle che creano una base di affidabilità. Queste relazioni affidabili sono quelle stabili, perché la mancanza di stabilità genera paura, crea insicurezza e sfiducia nel domani. Quando si manifesta una crisi di natalità come quella che stiamo vivendo adesso – prosegue Brancatisano – il problema non è solo quantitativo, cioè mancano nuovi esseri umani, ma anche qualitativo perché l’umanità si trova a uno stato di vitalità bassissimo. E questo perché non è in grado di mantenere relazioni stabili». Come sono quelle tra i coniugi e tra i genitori e i figli. «A fronte di una moltiplicazione delle possibilità di entrare in relazione, basti pensare ai social network, si assiste a uno svuotamento della relazione stessa, a una diminuzione della sua qualità». La Cei con il suo messaggio, lungi dall’indicare una strategia economica, finanziaria o politica, ricorda che la trasmissione della vita fa l’essere umano più umano: «Generando, si arricchisce l’umanità. E se l’economia si rende conto che conoscere e rispettare il capitale umano è produttivo di ricchezza – conclude l’antropologa – arriverà anche a comprendere che sostenendo la famiglia non si fa beneficenza ma si investe in un futuro migliore. Anche in termini economici». 
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