giovedì 25 novembre 2010
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La lotta contro la malattia. Contro la sofferenza, la solitudine, le infinte difficoltà. La lotta per la vita. Alle famiglie sottoposte a questa durissima prova ogni giorno poteva bastare. Non fosse stato per quei due testimonial dell’eutanasia fatti parlare – senza alcuna voce diversa dalla loro – in prima serata sulla tv pubblica. Un’umiliazione troppo grande da sopportare. È lì, dal palco di Vieni via con me, dieci giorni fa, che è cominciata un’altra lotta: quella per la parola. Perché deve poter essere raccontato, cosa vuol dire affrontare il dolore con dignità, coraggio, speranza, dedizione, altruismo. Le storie che abbiamo raccolto in questa pagina, come nelle numerose altre pubblicate nei giorni scorsi su Avvenire, ne sono l’ennesimo esempio. Ci rimettiamo in ascolto di questa Italia che non trova spazio sui media quando si parla di disabilità e decisioni di fine vita. Diamo loro voce, in attesa che la trovino anche altrove.Franco Rech la chiama «la mia montagna». Assomiglia all’Everest, lui a uno scalatore caparbio: ogni giorno si mette in cammino, sferzato dal vento gelido e dalla neve. A un tratto il miracolo di uno squarcio tra le nuvole, la vetta lassù, un po’ meno lontana, il passo che accelera. Poi di nuovo il vento, il gelo. Da 501 giorni Franco scala la montagna della sofferenza di sua figlia, Viviana. Tornava dalle vacanze sul Gargano nella sua Feltre, in provincia di Belluno, nell’estate 2009, quando una macchina invase la sua parte di carreggiata, vicino a Ischitella: un frontale tremendo, l’elicottero che la trasporta all’ospedale di San Giovanni Rotondo, l’arresto cardiaco, i danni gravissimi alle gambe, al volto, alla spina dorsale. Viviana, 27 anni, rimane appesa alla vita per un soffio. Poi, dopo lunghi mesi, l’uscita dal coma, la lenta ripresa fisica. E il verdetto più difficile da sopportare: la ragazza non mostra segni di coscienza. Quel giorno Franco se lo ricorda bene: «Arriva un dottore e mi dice che è vegetativa, come un vegetale insomma. "Eh no", ho detto io, "voi siete tutti matti!". Sono andato su tutte le furie. "Mica è una piantina, la mia Viviana, da mettere a centro tavolo o su un bancone fiorito, è una persona viva"». Questione di parole, di definizioni, ma per Franco e sua moglie Anna quelle contano davvero: «Le famiglie a cui tocca una prova come la nostra hanno bisogno di fiducia e coraggio, prima di tutto. E questo aiuto comincia con le parole dei medici, degli infermieri, delle persone». Tante, per fortuna, sono state dette nella maniera giusta: a San Giovanni Rotondo, Viviana è diventata la "mascotte" del reparto di Rianimazione, e così a Feltre, dove è stata trasferita per qualche mese, e poi a Vicenza, dove è ricoverata oggi. E ancora sui giornali locali, nella comunità parrocchiale, nell’asilo in cui lavorava come maestra. «È coccolata da tutti, sistemata, pettinata, ha sempre ospiti. E poi va matta per lo yogurt, lo sanno tutti ormai». Una piccola vittoria, oltre che un vizio, visto che proprio grazie allo yogurt Viviana ha ricominciato ad alimentarsi autonomamente, a deglutire.La settimana scorsa, quando su Raitre andava in onda la discussa puntata di Vieni via con me, sui malati come Viviana – quelli che «vorrebbero solo essere lasciati morire» secondo l’unica versione andata in onda – Franco e Anna non erano davanti alla tv. Avevano ottenuto il permesso dall’ospedale di caricare Viviana sull’auto e portarla a casa per la prima volta, dopo 501 giorni. Un giorno straordinario, per loro. Le hanno fatto rivedere la sua camera, le hanno avvicinato alle narici il suo profumo, i vestiti. Lei ha spostato la testa, sbattuto gli occhi, ha piagnucolato anche un po’. Uno squarcio nelle nuvole, Franco ha visto la vetta della sua montagna vicinissima. «Mica è una piantina, la mia Viviana. Vengano a conoscerla, i signori della tv...».
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