venerdì 15 settembre 2017
Quale rapporto tra discernimento e norme morali? Il tema è riproposto con forza da Amoris laetita, ma anche dal prossimo Sinodo dei giovani. Ne parlano Semeraro, Costa. Cencini e Petrà
Famiglia e coscienza, teologi a confronto
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La coscienza, il discernimento, la norma morale, la dottrina. Quattro grandi questioni sollevate da Amoris laetitia che sono di fatto altrettanto deflagrazioni atomiche nel rapporto tra la persona e la fede, benefica rivoluzione evangelica nel delicato equilibrio tra scelte personali e indicazioni dottrinali. Ripensare all’autenticità del proprio cammino di fede, abituarsi a guardare nel fondo della propria anima alla ricerca di ciò che Dio chiede qui e ora, non significa aprire la strada al soggettivismo – come qualche strenuo difensore del giuridicismo preconciliare si affanna a sostenere – ma crescere nella fede, acquisire una coscienza sempre più aperta alla comprensione del bello e del vero, fare chiarezza nella propria gerarchia di valori, diventare cristiani maturi e quindi cittadini migliori. Cammino faticoso perché impegna direttamente la responsabilità di ciascuno e supera la logica legalistica del “si può” o “non si può”. La libertà che Dio assegna ad ogni uomo, indistintamente, prevede che le scelte morali prendano forma sulla base di convinzioni maturate in un delicato equilibrio di considerazioni, di opportunità, di norme, di consapevolezza e di virtù (la prudenza per esempio).


Amoris laetitia rimette al centro discernimento e coscienza a proposito della vita familiare dove ogni scelta richiede interventi ispirati dall’amore e modulati sulla verità. Prassi tanto più complessa e densa di interrogativi quando si parla di sessualità, di generatività, di situazioni di crisi, di coppie spezzate. Ecco perché tutto il discorso sul discernimento diventa dirompente, innovativo ma denso di misericordia ("... la pienezza della giustizia e la pienezza più luminosa della verità di Dio", Al 311) nel capitolo VIII dell’Esortazione postsinodale che riflette sulle modalità più opportune per “accompagnare, discernere e integrare le fragilità”. Ma il tema del discernimento vocazionale sarà al centro del prossimo Sinodo dei giovani. Insomma un esercizio di verifica e di ascesi – troppo a lungo marginalizzato dopo il Vaticano II che ne aveva invece indicato il ruolo insostituibile – che è arrivato il momento di conoscere, promuovere, rilanciare, superando polemiche e dubbi, ritrosie e timori di “lesa maestà”. Mentre la Chiesa italiana ha avviato con decisione la riformulazione della pastorale secondo le indicazioni di papa Francesco a proposito di primato della coscienza e del discernimento, ci sono ancora “sacche di resistenza” che rimpiangono l’applicazione quasi automatica dell’elenco dei divieti e dei permessi, trascurando che con il normativismo né la persona né la Chiesa avanzano di un millimetro nel loro percorso verso l’abbraccio misericordioso del Padre. «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alle fragilità» (Al 308).

Il numero di “Noi famiglia & vita”, in edicola domenica con Avvenire, punta lo sguardo su coscienza e discernimento prendendo spunto da un recente saggio scritto da Marcello Semeraro, vescovo di Albano e segretario del C9. Del testo, “L’occhio e la lampada. Il discernimento in Amoris laetitia” (Edb) pubblichiamo ampi stralci. Seguono le riflessioni sullo stesso tema del padre gesuita Giacomo Costa, direttore del mensile “Aggiornamenti sociali” e autore di numerosi saggi sul tema: del teologo e psicologo padre Amedeo Cencini, canossiano, esperto di argomenti vocazionali; del moralista don Basilio Petrà, docente presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale e del Pontificio istituto Orientale di Roma. Di grande profondità i loro spunti che qui anticipiamo.

Marcello Semeraro
SCEGLIERE IN COSCIENZA CON L’OCCHIO DELL’ANIMA


Non c’è dubbio che, specialmente per impulso di Francesco, il primo papa «gesuita» nella storia della Chiesa cattolica, al «discernimento» si riconosce nuovamente la rilevanza che merita. Abitualmente il tema è collegato alla spiritualità ignaziana e non c’è dubbio che lì vi occupa un posto peculiare. Si sbaglierebbe di grosso, però, chi pensasse di limitarlo a quel contesto. È piuttosto sant’Ignazio che con grande originalità s’inserisce in una tradizione spirituale che prende avvio già nei primi secoli di vita della Chiesa ed ereditandola con grande originalità la consegna a noi con modalità fortemente attuali (...).
È importante per noi avere una nozione chiara e univoca del discernimento, se non altro perché si tratta di un termine nell’uso comune spesso frainteso. Gli si riferiscono, infatti, i contenuti più vari. Nella maggior parte dei casi, si tende a identificarlo con una semplice e pura analisi sociologica, o psicologica della realtà. In un senso più ricco, ma ancora parziale il discernimento è pure considerato in ordine a un’operatività fondata culturalmente da un punto di vista puramente antropologico; o anche, e questa volta in modo già meno riduttivo, in vista di una semplice formazione o governo della coscienza morale, capace di distinguere chiaramente il bene dal male, il peccato dalla tentazione: tutto questo, però, senza un esplicito riferimento alla volontà di Dio da compiersi qui e ora dal concreto soggetto discernente e operante. Questo, invece, è per noi l’elemento discriminante e qualificante il discernimento: la ricerca della volontà di Dio per me qui e ora! (...).
È questo il «discernimento», di cui noi parliamo.
Si tratta addirittura, di una via «mistica», diremmo, alludendo a quella mistica dell’istante che José Tolentino Mendonça propone come spiritualità del tempo presente. Si tratta, fondamentalmente, di modificare il nostro rapporto col tempo, superando l’acquiescenza a farci divorare dal tempo (il mito di Crono, che divora ciò genera) e cercando, invece, di riconciliarci con esso riqualificandolo, ossia aprendolo all’eternità mediante il riposo creatore. Senza questo «riposo» (lo shabbath) l’azione rimane irrisolta e chiusa su se stessa (...).
Alla luce di ciò, per quanto il linguaggio in proposito non sia unanime, nel discernimento si potrebbe distinguere un duplice aspetto, spirituale e morale.
Quanto al primo, padre Pietro Schiavone sj spiega che quello di cui parliamo non può che essere un discernimento spirituale: «non è di ordine puramente psicologico, sociologico, professionale, non è per risolvere un problema per esempio di marketing, di un’associazione, di un’azienda, di una società per azioni [...], ma trova nello Spirito di Dio il suo principio animatore». Al posto dell’aggettivo «spirituale» talvolta si usa quello di «vocazionale», se non altro perché la volontà di Dio conosciuta è pure percepita come «appello» e «chiamata» a essere concretizzata nella vita cristiana di battezzato nella Chiesa e per la Chiesa.
Anche Amoris laetitia ricorre a questa terminologia. Leggiamo ad esempio al n. 72: «Il matrimonio è una vocazione, in quanto è una risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Pertanto, la decisione di sposarsi e di formare una famiglia dev’essere frutto di un discernimento vocazionale». Più spesso, però, Amoris laetitia parla di discernimento pastorale (anche pratico) e personale. Per questa ragione sarà utile precisare da subito che, per quanto correlate, le due forme di discernimento si configurano diversamente. Il primo fa riferimento al compito e alla missione di un soggetto «pastorale», a cominciare dai vescovi e dai presbiteri (...). L’espressione «discernimento personale », a sua volta indica che «il discernimento è esercitato in prima persona dal soggetto morale – il fedele stesso – allorché è posto dinanzi alla necessità di prendere una decisione in ordine all’agire in una particolare situazione» (...).
Sia nel discernimento morale, sia nel discernimento spirituale, dunque, si tratta della ricerca, della conoscenza e della scelta della volontà di Dio da parte dell’uomo e della sua decisione per essa. Direi, tuttavia, che nel primo si tratta di una ricerca della volontà di Dio a un livello generale, valido per tutti, distinguendo ciò che è bene da ciò che è male; nel discernimento spirituale, invece, ci si colloca su di un livello più esistenziale e personale, tenendo conto della storia, della situazione e della condizione concreta della persona (...).
Ora, il discernimento morale indica il punto d’arrivo; il discernimento spirituale, da parte sua, aiuta il singolo soggetto discernente a comprendere che cosa adesso e nella sua concreta situazione (qui e ora) il Signore gli domanda di fare e come può, di fatto, dirigersi verso di lui. È anche in questa prospettiva che Francesco nell’esortazione torna a parlare del piccolo passo che, compiuto in mezzo a grandi limiti umani, è gradito a Dio.

Giacomo Costa
PUNTARE AL BENE POSSIBILE CHE È PIÙ ESIGENTE DELLA NORMA


In che cosa consiste la cura per la famiglia? Fondamentalmente nell’accompagnarla a crescere verso quello che già è: il luogo dove si impara l’amore che non ha misure e che deve continuare a essere totale in tutte le fasi della vita, in forma proporzionata a ciascuna di esse.
Secondo Amoris laetitia lo strumento per procedere in questo cammino senza perdere la rotta è il discernimento, che «è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno» (n. 303). Ovunque è in gioco la libertà, si apre lo spazio del discernimento, anche nel rapporto con Dio. Ma di che cosa si tratta quando si parla di discernimento? È un termine chiave per la comprensione dell’esortazione e più in generale del modo di procedere che papa Francesco adotta e propone alla Chiesa. Non lo usa nell’accezione ordinaria di “buon senso”, “capacità di giudizio assennato”, affine alla virtù classica della prudenza, ma nel senso tecnico più specifico, proprio ad esempio della spiritualità: il discernimento è la capacità di esercitare la propria libertà nel prendere decisioni, in particolare quelle che riguardano l’identificazione dei mezzi per raggiungere il fine che ci si è proposti.
Il discernimento presuppone dunque chiarezza in ordine al fine, che per il credente è compiere la volontà di Dio, e incertezza in ordine al mezzo. È lo strumento per dare risposta alla domanda, talvolta angosciosa, talvolta formulata a stento, su che cosa fare per vivere la buona notizia del Vangelo. Per il credente la pratica del discernimento si nutre della familiarità con il Vangelo e il modo di fare del Signore, attraverso la preghiera, con un orientamento pratico: richiede imprescindibilmente il passaggio all’azione, “uscendo” dai propri pensieri e assumendo il rischio di compiere dei passi. La prova della realtà aiuterà a capire la bontà della decisione presa ed eventualmente aggiustarla.
Nella sua concretezza, il discernimento è radicato anche in un’altra esperienza, senza la quale risulta incomprensibile: sentirsi spinti o attirati in direzioni diverse, sperimentare l’incertezza tra alternative che suscitano una varietà di «desideri, sentimenti, emozioni» (n.143). Provarli «non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso» (n. 145): la sfida del discernimento è muoversi attraverso queste passioni, utilizzandole come strumento per identificare non quello che è sufficientemente buono (l’ aurea mediocritas), ma quello che è meglio. La vita familiare è ricca di situazioni in cui applicare il discernimento, dalla scelta dello stile di vita e delle modalità di educazione dei figli, fino alle decisioni sul modo di vivere la sessualità e l’esercizio della paternità responsabile.
Scopriamo così un altro presupposto del discernimento: la libertà non si esercita in un astratto iperuranio, ma in circostanze concrete, che pongono vincoli e condizionamenti di cui essere consapevoli. Per questo «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» (n. 304). Le norme mantengono inalterato il loro valore e rappresentano l’orizzonte al cui interno il discernimento si compie, completandole e specificandole nella situazione concreta, poiché «nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari» (ivi). Correttamente intesi, discernimento e norma rimandano sempre l’uno all’altra. Il discernimento non è dunque un sistema per trovare giustificazioni, pretesti o escamotage per depotenziare le esigenze della norma che indica il bene. La parola può certo essere utilizzata per coprire questo tentativo, ma questo ne rappresenta una perversione. Anzi, il discernimento si rivela persino più esigente della norma, perché richiede di passare dalla logica legalistica del minimo indispensabile a quella del massimo possibile, nella consapevolezza del proprio limite e della possibilità di spostarlo ogni giorno un poco più avanti, senza accontentarsi di una misura soddisfacente o tarare il proprio obiettivo sulle potenzialità della media: il discernimento punta a valorizzare al meglio le possibilità di ciascuno. Iniziamo così a intravedere il rapporto tra la pratica del discernimento e la gioia del Vangelo che a papa Francesco sta tanto a cuore. È questa gioia che permette alla libertà di rinunciare a ciò che è meno importante per raggiungere ciò che conta di più. Chi non conosce questa libertà che è al tempo stesso rinuncia e pienezza faticherà a comprendere la AL; ma d’altra parte è difficile che la vita familiare non contenga almeno qualche traccia di questa esperienza, che sarà compito della pastorale aiutare a far emergere e a maturare.
Tutto questo processo di discernimento nella chiave della gioia è un altro modo di affermare la centralità della coscienza: non è una voce castratrice, come facevano credere i maestri del sospetto, ma il luogo in cui, come ricorda il n. 222, risuona la voce di Dio.
La guida del discernimento non può così che essere l’«amore misericordioso» (n. 312) e la coscienza delle persone è innanzi tutto il luogo appropriato in cui esso si svolge, a cui «stentiamo a dare spazio» (n. 37) e che invece «dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa» (n. 303): i fedeli «tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi» (n. 37). Nella prospettiva che abbiamo delineato il ruolo della coscienza non può limitarsi al riconoscimento di essere nell’errore o nel peccato: essa può anche «scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (n. 303).

Amedeo Cencini
IL RISCHIO DI SCEGLIERE SENZA ATTENDERE “ORDINI”


Dobbiamo esser molto riconoscenti a papa Francesco per aver riproposto alla Chiesa intera il discernimento, come compito e grazia. Sino a farne una chiave di lettura o un obiettivo della riforma che egli intende realizzare nella comunità credente. Sappiamo che veniamo da cammini formativi che non ci hanno educato in tal senso, riducendo il discernimento tutt’al più a strumento di ricerca in situazioni d’emergenza. Con la conseguenza che abbiamo privilegiato una concezione passiva e securizzante del credere, meno responsabilizzante e piuttosto ripetitiva, poco spendibile nel contesto culturale odierno. Dal discernimento, in realtà, deriva un’immagine nuova sia del credente che cerca che di Colui che è l’oggetto della ricerca.
Colui che discerne è anzitutto un pellegrino con il senso del mistero, sa che Dio è il Presente e che non esiste spazio o istante vuoti di lui; e allora lo cerca ovunque e comunque, sviluppando in sé una sensibilità spirituale attenta "alla brezza di vento leggera". È il credente ob-audiens, con la mano all’orecchio per udire colui che parla senza voce. È l’amante che cerca l’amato, e se è questione d’amore è anche l’adulto nella fede che cerca col proprio cuore e non s’accontenta d’evitare l’illecito, ma vuole scoprire ciò che è buono e gradito all’Amato e che Dio stesso s’attende proprio da lui, in questo preciso istante, non appena quel che va bene per il gruppo. Ma è adulto nella fede soprattutto perché corre il rischio di scegliere e decidere in ogni cosa quel che è giusto fare, senza aspettare sempre ordini dall’alto né fidandosi semplicemente del suo impulso, ma perché attraverso l’esercizio costante del discernere acquisisce sempre più una coscienza sensibile a ciò che è bello e buono, vero e giusto: una coscienza in cui risuona l’eco della voce dell’Eterno.
E forse questo è il punto più rilevante da sottolineare. Il discernimento viene da lontano, implica un cammino formativo meticoloso e attento al proprio mondo interiore (fatto di sensi, emozioni, sentimenti, affetti, gusti, criteri di scelta e giudizio…); ha senso solo se diventa sempre più il modo abituale di vivere e di credere. Il discernimento è improbabile se improvvisato, non può esser ciò che si fa solo in situazioni critiche. E occorre discernere sempre perché in ogni momento della vita, Dio ha qualcosa da dirmi e da darmi, da chiedermi e rimproverarmi, in modo spesso inedito e inatteso. O uno cerca Dio in ogni istante, idealmente, o non potrà pretendere di metter in atto ogni tanto un metodo di ricerca che lo metta al riparo da ogni dubbio. Non si discerne, infatti, per eliminare i dubbi, ma – al contrario – per impedir loro – come un alibi – di frenare le decisioni, specie quelle che solo tu puoi prendere o quando sarebbe più facile delegare la responsabilità ad altri o a una norma fissata una volta per tutte e per tutti, o rimandare all’infinito le scelte.
Forse proprio per questo motivo l’invito di papa Francesco in Amoris laetitia ad accompagnare le coppie in crisi, facendo con loro un cammino di discernimento, ha incontrato le ben note resistenze e opposizioni. Molti avrebbero preferito indicazioni chiare, solo da applicare nella pastorale (o cui obbedire): in fondo non c’è proprio per questo l’autorità nella Chiesa? Ma siamo sicuri che sia quella la vera obbedienza, dell’adulto che cerca la cosa migliore e più gradita a Dio per sé e, in tal caso, anche per altri? Siamo certi che sia quella la funzione dell’autorità? Non potrebb’esserci un sottile abuso d’autorità (dal basso) in chi in tal modo evita di porsi in un cammino laborioso e scomodo, che suppone preparazione e consuetudine personale, e scarica così ogni responsabilità sull’autorità stessa?
Diciamolo con franchezza: molte di quelle reazioni han preso di mira il presunto cambio di dottrina, ma in realtà non nascondono forse anche la consapevolezza di non esser abbastanza preparati a fare discernimento? Non tradiscono un certo smarrimento del pastore più abituato ad applicare norme che a cercare quel che Dio sta compiendo nella vita d’ognuno in qualsiasi situazione? O più preoccupato dello scandalo da evitare che attento e sensibile a quel frammento di bene che è possibile in ogni circostanza?
Ma la cosa forse ancor più significativa è che nel discernimento Dio si rivela per quel che è. Oggetto primo del discernimento è quanto Dio fa nella nostra vita, infatti, prim’ancora di quel che io devo sceglier di fare. E quando il discernimento diventa stile di vita, Dio si rivela sempre più come il Mistero buono e amico, che desidera farsi vedere e toccare, «che non vuole soldatini obbedienti, ma figli felici» (Ronchi), felici di cercarlo e lasciarsi da lui cercare.
Per chi non discerne, Dio è enigma, muto e tenebroso, freddo e inaccessibile.
Per chi discerne, Dio è Mistero di luce abbagliante, ma che illumina la vita e ogni suo mistero!

Basilio Petrà
PERCORSO VERSO IL “MEGLIO” DA VALUTARE CASO PER CASO


Si dice che una persona ha "discernimento" se mostra la capacità di valutare correttamente i termini di una situazione in modo da scegliere ed attuare i comportamenti adeguati ad essa. Naturalmente, il comportamento – dunque il discernimento – è considerato adeguato quando corrisponde alle esigenze proprie della situazione. Diverso è infatti un discernimento di tipo tecnico, di tipo giuridico, tipo morale, spirituale ecc. Nell’Amoris laetitia i tipi di discernimento ai quali principalmente si fa riferimento sono due: il "discernimento pastorale", ovvero il discernimento esercitato dal pastore, e il "discernimento personale", ovvero il discernimento della persona del fedele chiamato a realizzare il bene possibile e doveroso in situazione. AL associa nei nn.298.300 i due tipi di discernimento ("discernimento personale e pastorale") con chiaro riferimento al rapporto di foro interno (colloquio pastorale e confessione) che si instaura per questioni di coscienza tra pastore e fedele. Mi fermerò qui sul "discernimento pastorale". AL non tratta in generale del discernimento pastorale; considera in modo specifico quel "discernimento pastorale" che ha per oggetto il discernimento delle situazioni dette "irregolari". Secondo l’Esortazione il senso proprio di tale discernimento è "valorizzare" tutto il valorizzabile di tali situazioni. Non si tratta dunque di misurare le situazioni sull’ideale, ma di cogliere in esse quegli elementi che hanno in sé una qualche positività valoriale e possono aprire un cammino costruttivo, per una maggiore condivisione/ integrazione nella vita della Chiesa. In AL, valorizzazione e integrazione sono due parole chiave del senso del discernimento pastorale riguardo alle varie forme di unione non corrispondenti all’ideale.

Discernimento pastorale secondo AL
Il "discernimento pastorale", proteso alla valorizzazione/integrazione di tutto il valorizzabile nelle situazioni vissute dei fedeli, può secondo AL giungere fino alla valorizzazione/integrazione sacramentale (l’aiuto dei sacramenti: AL 305, nota 351) quando il pastore perviene ad una valutazione corrispondente, prendendo in considerazione il rapporto della persona con la precedente unione da una parte e il suo vissuto della nuova unione dall’altra. Da una parte, il pastore raggiunge la solida convinzione che la prima unione sia irreversibilmente conclusa, ci sia stato e ci sia rispetto dei doveri di giustizia nei confronti delle persone coinvolte in essa, ci siano stati e ci siano tentativi di riconciliazione e di perdono reciproco con consapevolezza delle proprie responsabilità e con sincero pentimento, pur nella consapevolezza che il passato non può più essere modificato nei suoi effetti distruttivi. Dall’altra, egli può constatare che la nuova unione è stabilmente e pubblicamente costituita, vissuta con impegno e serietà, in coerenza con lo stile evangelico di coniugalità e parentalità, con partecipazione attiva alla vita della Chiesa e assunzione responsabile dell’educazione dei figli nella fede. Il pastore, nell’orizzonte di tale discernimento, può assolvere e ammettere all’Eucaristia, andando in alcuni casi anche oltre la soluzione pastorale indicata da Familiaris consortio, 84. Ciò può realizzarsi quando il ministro – sulla base del discernimento suddetto – giunga alla persuasione che l’esercizio di un disordine oggettivo da parte della persona si configura come il male minore nella situazione, ovvero come quel solo bene che è possibile entro i limiti della nuova situazione. In tali situazioni, infatti, secondo la tradizione della Chiesa, il disordine oggettivo non configura il peccato grave, l’unica condizione che esclude dalla partecipazione alla vita eucaristica della comunità.

Discernimento pastorale e spirituale

Il discernimento pastorale per sua natura mira a prendersi cura del fedele, della sua crescita nella vita cristiana, sanando le ferite, nutrendolo della parola e dei sacramenti, sorreggendolo nel cammino e accompagnandolo lungo di esso secondo una legge di gradualità. Parte del discernimento pastorale è certamente il bene spirituale del fedele, come è chiaramente implicato anche da AL 249. Tuttavia, la terminologia del discernimento spirituale è in generale riferita al processo mediante il quale il fedele discerne tra i pensieri che vengono dallo Spirito del Signore e quelli che vengono da un altro spirito, quelli che portano i frutti dello Spirito nella sua vita (la somiglianza con Cristo, le virtù) e quelli che invece manifestano i segni distruttivi del male.

Discernimento e norma morale
Quando si parla della norma morale, si deve tener conto che se ne può parlare in due modi. Possiamo cioè riferirci alla norma morale astrattamente regolativa dell’azione sulla base dei valori che la fondano (ad es. esiste il dovere dell’elemosina basato sulla carità e sulla giustizia: CCC, 2447). Oppure possiamo riferirci alla norma morale che la persona riconosce in coscienza come vincolante per sé in una determinata situazione (ad es. devi fare l’elemosina a quella particolare persona). Il discernimento morale pratico è proprio quello che concerne il secondo livello normativo giacché nella nostra tradizione morale non si dà coincidenza semplice tra la normatività astratta e la norma concreta in situazione. Da sempre la sapienza morale della Chiesa sa che alcune norme astrattamente date non possono essere applicate semplicemente nella situazione e che il soggetto agente si trova spesso a muoversi in condizioni segnate dal limite, dalla mancanza di libertà, dall’insufficienza di forze e di conoscenza della situazione, dal timore serio delle conseguenze non controllabili. Ciò che in ogni caso è chiesto alla persona è che essa cerchi di realizzare il bene che ai suoi occhi interiori (la coscienza) appare possibile e doveroso in quella situazione, fosse anche l’estrema possibilità del bene, ovvero l’evitare un male più grande.

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