venerdì 6 ottobre 2017
Dalla Pontificia Accademia per la Vita l'invito a rilanciare il patto tra medico, paziente e familiari per evitare nelle scelte di fine vita soluzioni astratte e burocratiche, come il biotestamento.
«Cure palliative, la risposta umana sul fine vita»
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Mentre al Senato è allo studio il disegno di legge sulle «Dat» – le disposizioni anticipate di trattamento, conosciute forse dai più come testamento biologico –, la Pontificia Accademia per la Vita nel secondo giorno di workshop internazionale – aperto giovedì dal grande discorso del Papa sulla nuova cultura della vita – ha dato spazio, tra gli altri, anche al tema dell’accompagnamento e del sostegno al malato terminale, quantomai attuale nel dibattito biopolitico non solo italiano ma anche globale. «Dalla nostra assemblea – è la sintesi di don Renzo Pegoraro, cancelliere dell’Accademia – esce un messaggio forte a sostegno delle cure palliative. Occorre promuovere l’assistenza ai malati terminali, offrire un buon trattamento del dolore, un adeguato supporto psicologico e spirituale, e soprattutto permettere che il malato viva, fino alla morte, una dignitosa esistenza. Le Dat all’esame del Parlamento italiano sembrano più uno strumento burocratico che una vera risposta ai problemi reali».
La qualità del dialogo tra il medico e il paziente, in un reale accompagnamento verso la fine della vita, è un tema cruciale su cui oggi è indispensabile lavorare per dare dignità alla stessa malattia: «Dottori e malati devono essere trattati da soggetti attivi – insiste Pegoraro –. I medici, che hanno la responsabilità di informare, non possono essere semplici esecutori di volontà altrui. Allo stesso tempo il paziente, accompagnato nella consapevolezza della malattia, è più libero e più informato. Non si può sottovalutare l’importanza di un’alleanza che non si realizza tramite moduli o carte. Si corre il rischio di ricorrere a disposizioni di legge al di fuori del contesto effettivo nel quale si trovano il malato e i suoi familiari: il modulo deve essere frutto di un percorso con il medico che conosce la storia clinica del malato e di una conseguente valutazione condivisa». Le cure palliative, che in Italia sono uno strumento in crescita «più sviluppate in qualche regione – prosegue il cancelliere –, sono un ambito nel quale è indispensabile grande collaborazione tra operatori sanitari, che necessitano di formazione, ma anche tra le realtà ecclesiali, con una presenza del volontariato che deve essere più consistente».
Questa ricca collaborazione nasce soprattutto dalla consapevolezza che spesso oggi ci «occupiamo più di curare la malattia che di porre attenzione al malato», come ha sottolineato l’oncologa Kathleen M. Foley, del Memorial Sloan-Kettering Cancer a New York, che ha proposto una riflessione sull’«Accompagnare la vita verso la morte». La relazione di cura deve prendere forza dal riconoscimento della vulnerabilità di ogni individuo. Proprio la vulnerabilità sta diventando una nuova prospettiva di studio per la bioetica coinvolgendo ogni essere umano. «La vulnerabilità – spiega Henk ten Have, direttore del Centro per Healthcare Ethics dell’Università di Pittsburgh – è il risultato di un’economia che ha provocato maggiori differenze nella popolazione insieme a problemi ecologici come un’evidente perdita lenta nella biodiversità. Eppure, come sostiene il sociologo inglese Bryan Turner, al fondamento dei diritti umani c’è la vulnerabilità che accomuna gli esseri umani. La sofferenza, la malattia, la maturità e la vecchiaia manifestano la naturale dipendenza tra le persone: abbiamo bisogno gli uni degli altri per maturare e crescere, per essere curati e per invecchiare. La vulnerabilità stimola la solidarietà globale e aiuta la società a diventare più umana».

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