lunedì 10 giugno 2013
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Sono accomunati dall’avere accanto un bambino malato. Sono infermieri, volontari, medici e psicologi, ma sono soprattutto genitori. Mamme e papà che si devono confrontare con una diagnosi infausta da dover spiegare ai loro piccoli. C’è chi usa la favola, chi il gioco, chi ancora chiama la patologia per quello che è, senza nasconderne la gravità, puntando sulle straordinarie energie dei bambini. Loro, in fondo, chiedono semplicemente di sapere perché non possono andare a scuola e sono costretti in un letto. Nei racconti dei genitori, riuniti a Roma nel secondo Family Day che dà il via al congresso dell’Associazione italiana ematologia oncologia pediatrica, c’è una convinzione forte: domiciliarità nelle cure, accoglienza sinergica in ospedale e ascolto dei bambini sono le tre vie per entrare nel loro «spazio doloroso».   Non c’è nessun manuale per essere genitori nella malattia; lo ha capito sulla sua pelle Angelo Ricci, papà di una bambina di sei anni colpita anni fa dalla leucemia e adesso presidente della Federazione italiana associazioni genitori oncologici pediatrici. «Ho sempre mentito a mia figlia sulla malattia – dice – minimizzandone la serietà». Ora che lei non c’è più, Angelo sa di aver sbagliato a non combattere, anche con la trasparenza nella comunicazione, contro un male tanto veloce quanto devastante. «Con i piccoli pazienti serve avere un rapporto franco – ammette – perché loro hanno una forza inaspettata da cui noi grandi possiamo solo imparare».   Tanto è vero che il figlio di Monia Pinzaglia, che convive da sette anni con la leucemia, un giorno ha chiesto alla sua mamma e al medico di «spiegare direttamente a lui il suo problema». I bambini, continua, non vogliono sentirsi «un pacco o estranei quando gli adulti parlano della malattia, vogliono essere coinvolti perché sono i primi che debbono credere nella guarigione». Già soffrono, racconta Monia, perché la loro socialità è ridotta al minimo, non vogliono insomma sentirsi pure degli esclusi proprio in famiglia. I figli sanno meglio di tutti quando gli si raccontano bugie e, per non fare passi falsi, «il percorso d’accoglienza in ospedale resta il passaggio fondamentale».C’è una difficoltà che più di tutte spaventa i genitori. «Capire la diagnosi, interiorizzarla», prima di poterla esporre con le parole giuste ai figli. Anna Maria fa parte dell’associazione Abe che si occupa di bambini emopatici. Ma prima di tutto lei è la madre di un ragazzo, oggi ventenne, a cui nel 1999 è stata diagnosticata una leucemia. «Gli ho raccontato una storia – ricorda oggi – quella dei soldatini bianchi e rossi. Gli ho spiegato che nel suo sangue non c’erano più tanti soldatini bianchi e doveva prendersi delle medicine per rendere più forti quei pochi che aveva». Difficile interrompere il suo racconto appassionato del cenone di Capodanno realizzato ai piedi del letto di sua figlio. La sua famiglia ha superato il trauma iniziale grazie alla «sinergia totale» dell’equipe ospedaliera. Tuttavia non sempre è così, aggiunge, «umanizzazione della cura e accoglienza psicologica» in questi casi perciò non possono essere un optional.         
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