giovedì 3 settembre 2020
Chi viene soppresso nel grembo materno? Di quale dignità è portatore? E l'aborto con la pillola è o no una forma di banalizzazione? Dialogo difficile, ma da tentare.
Ru486, «una svolta»? «Così si ignora il nascituro»
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L’aborto è un diritto o un dramma? Tra i due giudizi corre una distanza che pare incolmabile, a meno che non si voglia cercare insieme un denominatore comune, per quanto veramente minimo. È la sostanza del confronto che si è acceso sulle nuove linee guida ministeriali che vedono contrapporsi chi sostiene che il ricorso alla pillola Ru486 renda l’interruzione di gravidanza più rispettosa della salute femminile e quanti argomentano la tesi opposta, con l’aggravante di risospingere nel privato una pratica resa pubblica dalla legge 194. Dialogo tra sordi? Nelle settimane trascorse dal tweet col quale il ministro della Salute Roberto Speranza l’8 agosto annunciava la svolta – aborto farmacologico in day hospital, ambulatori e persino consultori in tutta Italia – l’impressione è stata anche più preoccupante: da non pochi sostenitori dell’innovazione il lancio di slogan e invettive verso chi ha criticato – in taluni casi molto aspramente – la decisione ministeriale è sembrato riproporre il solito schema dello screditamento preventivo dell’interlocutore.
È dunque un segnale incoraggiante il tentativo di gettare un ponte tra gli opposti fronti da parte del Master di Bioetica dell’Università di Torino, con il webinar organizzato da Maurizio Mori, presidente della (laicissima) Consulta di Bioetica insieme alla bioeticista Palma Sgreccia (cattolica), per mettere a confronto tesi che sembrano a oggi inconciliabili. «Eravamo consapevoli che ci sono posizioni teoriche inconciliabili sul valore da attribuire alla vita nascente – spiega Palma Sgreccia, che ora insegna proprio nell’ateneo di Torino – ma, accanto a queste differenze, siamo anche consapevoli che molto si può fare dal punto di vista pratico. Siamo tutti chiamati a impegnarci affinché le donne possano scegliere avendo a disposizione più opzioni a favore della vita del nascituro. Spero che finisca il clima da guerra culturale e ci si impegni insieme: al di là del metodo usato, l’aborto rimane una scelta tragica». Una posizione però tutt’altro che condivisa dalle voci a supporto delle linee guida che hanno animato, insieme ad altre motivatamente critiche, il convegno online di lunedì sera: «Non ricordo nella mia carriera di ginecologo donne che si siano pentite di aver abortito – è l’opinione di Corrado Melega, tra i primi a introdurre in Italia la Ru486, a Bologna –. Questo metodo ha limitato nel mondo la mortalità materna: la metà dei 56 milioni di aborti praticati ogni anno sono non sicuri, per questo è un farmaco che l’Oms definisce salva-vita». Un ossimoro per don Mauro Cozzoli, teologo dell’Università Laternanense, che invita a distinguere tra «libertà e arbitrio» nella scelta della donna, ritenuta invece del tutto insindacabile – e pure estranea al perimetro dell’etica – dalla ginecologa Anna Pompili, entusiasta per il provvedimento ministeriale al pari del collega Silvio Viale: al Sant’Anna di Torino fu lui ad aprire le porte alla Ru486, diventandone convinto dispensatore in day hospital, al punto da ritenere l’aborto farmacologico «una prestazione medica qualunque, come quelle odontoiatriche». E se la giurista della Lateranense Chiara Ariano ritiene che non vada rimossa «la dimensione pubblica della pratica abortiva» ricordando che in essa «è coinvolto un altro soggetto come il nascituro», Cozzoli sposta l’attenzione proprio sull’«identità di chi viene soppresso con l’interruzione di gravidanza».
È proprio questo il punto sul quale è indispensabile costruire un minimo di linguaggio comune: chi c’è nel grembo materno? Dal varo della 194 la scienza ci ha detto molto al suo riguardo. Ma su un cammino comune nell’interesse delle donne – la cui solitudine davanti a una gravidanza non desiderata trova tutti concordi – pesa l’evidente considerazione delle nuove linee guida come «una rivoluzione» per la libertà delle donne, a prescindere da ogni diversa considerazione: un nuovo vessillo simbolico, dunque, che impedisce però di considerare tutta la realtà, e gli argomenti che lo mettono in discussione.

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