giovedì 14 febbraio 2019
La "gratuità" su cui il Papa ha invitato a riflettere nel suo Messaggio per la Giornata del malato cambia il modo di assistere il malato, e anche di vivere la malattia. Il punto di vista della Cei.
San Giovanni Rotondo,17 marzo 2018: papa Francesco con un piccolo paziente ricoverato a Casa Sollievo della Sofferenza

San Giovanni Rotondo,17 marzo 2018: papa Francesco con un piccolo paziente ricoverato a Casa Sollievo della Sofferenza - ANSA

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Parlare di malattia e sofferenza è sempre più difficile a causa di una costante rimozione in atto a qualsiasi livello culturale e sociale. È un tema sempre più rimosso dai nostri dialoghi e pensieri. E anche dalle nostre preghiere. Eppure, come è evidente, la realtà della fragilità permea ogni ambito del nostro vissuto. Quando poi irrompe nella nostra vita o in quella delle persone amate ne siamo sconvolti. Per non parlare della morte stessa, antica compagna della vita di tutti, che non si può nemmeno nominare. In questo contesto ogni anno si innesta la provocazione della Chiesa che ci invita a guardare le persone malate per renderle protagoniste dell’azione pastorale. La Giornata del Malato (celebrata lunedì) non è per il malato ma dei malati stessi. È il giorno in cui ricordiamo la necessità che la malattia e la sofferenza tornino luogo di annuncio di salvezza, testimonianza di un vissuto amorevole in cui la vita, quale che sia la sua condizione, si fa offerta per un progetto misterioso di Dio che, avendone fatto esperienza nel Figlio, l’ha resa divina. Con il suo Messaggio papa Francesco ci ha invitato a riflettere sulla dimensione della gratuità. Potrebbe risultare strano applicare questo concetto alla nostra vita, dal momento che siamo abituati a ragionare in termini economici di costi-benefici o di diritto alla salute (che, a pensarci bene, non esiste perché nessuno te lo può garantire: piuttosto, abbiamo diritto a essere curati quando ne abbiamo bisogno, e diritto a vedere rimosso ogni rischio che può compromettere la nostra salute). Eppure esiste una dimensione cristiana del vivere gratuito radicata, come ci ricorda il Vangelo, nella nostra stessa nascita, che è stata gratuita. Abbiamo ricevuto gratuitamente, quindi possiamo e dobbiamo dare. C’è una dimensione gratuita della malattia in cui la persona è chiamata a vivere l’esperienza del dolore affidandosi al progetto di Dio, che non conosciamo ma sappiamo essere di solo amore per ciascuno di noi. C’è poi la gratuità delle persone amate che, impotenti intorno alla persona, compartecipano la sofferenza e sono chiamate a una presenza amorevole che accompagna e sostiene, senza poter far altro che "stare", come Maria, ai piedi del sofferente. C’è, ancora, la gratuità degli operatori sanitari, chiamati a offrire più della loro professionalità: oltre le fatiche sopportate possono dare un sorriso, una carezza consolante, un ascolto empatico, che non può essere contrattualizzato ma che è necessario perché si realizzi la presa in carico della persona. C’è anche bisogno di una gratuità dei servizi di cura, pubblici e privati: gli equilibri economici sono necessari, ma si guardi bene nei bilanci, dai quali si possono ancora recuperare enormi risorse da destinare a cure primarie, personale, ricerca, mantenimento di presìdi sanitari in zone rurali. La gratuità è termine difficile da declinare fuori da un pensiero cristiano. L’augurio è che torni a essere un vissuto quotidiano, in cui l’accoglienza delle vulnerabilità avvenga anzitutto per rispetto della persona, poi per amore dell’umanità, non ultimo per dovere sociale, in modo da costruire un mondo diverso dall’attuale. Che rischia di piacerci sempre meno.
Direttore dell’Ufficio Cei per la pastorale della Salute

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