sabato 6 giugno 2020
Uno studio firmato da 14 specialisti italiani mostra che dove sono state inserite nei percorsi dei reparti con malati di coronavirus le cure palliative hanno cambiato l'approccio al fine vita.
L'emergenza Covid ha fatto «scoprire» le cure palliative?
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«Ci si è rimboccati le maniche» e i «palliativisti» – medici esperti in cure palliative – hanno lavorato fianco a fianco con i sanitari delle altre specialità per assistere i malati di Covid 19. I dettagli di un «modello» su cui riflettere emergono da un articolo pubblicato dalla Rivista italiana di Cure palliative e firmato da 14 specialisti e responsabili di hospice (Marta De Angelis, Filippo Canzani, Luciano Orsi, Clarissa Florian, Danila Valenti, Massimo Bernardo, Massimo Pizzuto, Laura Rigotti, Raffaelle Antonione, Raffaella Bertè, Silvia Tanzi, Silvia Di Leo, Fernando Garetto, Matteo Beretta). «Abbiamo avuto due tipi di esperienze – sintetizza Marta De Angelis, responsabile clinico Aglaia onlus a Spoleto –. In alcune strutture ospedaliere sono stati attrezzati spazi dedicati al fine vita nei reparti Covid 19. In altri casi i professionisti delle cure palliative si sono messi a disposizione formando i colleghi sugli aspetti legati a comunicazione e gestione del lutto». Gli specialisti di altre discipline «di solito poco conoscono la gestione dei sintomi o sono poco abituati all’uso della morfina nella terapia del dolore e della dispnea, quasi sempre presente nei malati di Covid. Quindi i palliativisti hanno realizzato una formazione sul campo». L’articolo illustra in dettaglio le esperienze compiute ad Abbiategrasso – Magenta, Bologna, Bolzano, Cinisello Balsamo, Mantova, Monfalcone, Piacenza, Reggio Emilia, Torino e Vimercate, tra reparti ospedalieri e aziende sanitarie. «Le cure palliative hanno iniziato a sentirsi parte attiva dell’emergenza fin dal suo esordio – nota l’articolo –. È inoltre parso chiaro che a gestire e sostenere tutte queste morti erano prevalentemente operatori sanitari non sempre adeguatamente preparati a questo. Perché chi si occupa di cure palliative sa bene che a ogni morte corrisponde un fine vita e che può essere affrontato in maniera adeguata per limitare al massimo sofferenza, discomfort, solitudine e lutto patologico per chi resta, familiari e operatori sanitari, qualsiasi sia il setting assistenziale». Durante una crisi come la pandemia «è inevitabile ricorrere al triage dei malati per allocare le risorse disponibili nel modo clinicamente ed eticamente più corretto», nota Marta De Angelis. Lo specialista di cure palliative sa bene come fare, mentre gli altri colleghi lavorano piuttosto sulla prestazione e non sulla pianificazione a lungo termine».


La seconda sezione dell’ampio articolo illustra alcune esperienze internazionali, rinforzando l’idea – sottolineata negli articoli da riviste mediche di nove Paesi – che «i palliativisti dovrebbero avere un ruolo importante per il controllo diretto dei sintomi, ma soprattutto per l’educazione alla gestione sintomatologica dei colleghi in prima linea nella cura della nuova malattia». In particolare «in tutti i Paesi ad alto reddito, laddove è stato possibile, la risposta dei servizi sanitari rispetto alla palliazione è stata similare: integrazione con le altre specialità per la formulazione di triage clinico, formazione e supporto alla gestione dei sintomi legati al fine vita e alla sedazione palliativa, valorizzazione della comunicazione con la persona malata e i familiari, diritto al consenso informato e alla pianificazione delle cure (quando possibile), supporto emotivo a malato, famiglia e operatori coinvolti». Mancano dati significativi sulla gestione del fine vita Covid a casa, perchè in Italia, come conferma Marta De Angelis, «la presenza delle cure palliative domiciliari è disomogenea e destinata ai malati oncologici. Dobbiamo lavorare su diversi fronti. Abbiamo sofferto per le norme di tutela che hanno limitato il contatto con pazienti e famiglie. E nelle cure palliative la relazione è fondamentale». Pensando al futuro, la Sicp (Società italiana Cure palliative) lavora con il Ministero dell’Istruzione e della ricerca per dare vita a una scuola di specializzazione oggi inesistente. «Abbiamo come Sicp un “progetto giovani” per una maggiore definizione identitaria di chi opera nel settore. Questa emergenza ci ha fatto capire che esiste la necessità di un nuovo modo di prendersi cura, rafforzando l’identità “palliativista” dei professionisti che provengono da diverse specialità».

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