lunedì 6 giugno 2022
Rifoldi, 46enne tetraplegico marchigiano che chiedeva il suicidio assistito, decide di applicare la legge sulle Dat e di ottenere la morte secondo la procedura già prevista dal Parlamento nel 2017
Fabio Ridolfi

Fabio Ridolfi - Ansa

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Fabio Ridolfi, 46enne marchigiano, paralizzato da 18 anni, ha deciso di interrompere i supporti vitali chiedendo di essere accompagnato alla morte con la sedazione profonda per alleviare le conseguenze del distacco della nutrizione assistita. Una scelta drammatica per porre fine a sofferenze che giudica insostenibili e che applica la legge 219 del 2017 sulle Disposizioni anticipate di trattamento. Il provvedimento approvato dal Parlamento, come noto, considera terapie l’idratazione e l’alimentazione artificiali consentendone di conseguenza la sospensione a richiesta del malato (articolo 1, comma 5) e prevede il ricorso alla «sedazione palliative profonda» in caso «di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari» (articolo 2 comma 2). Il paziente affetto da tetraparesi chiedeva di poter applicare la sentenza 242 del 2019 con la quale la Corte costituzionale depenalizzava a precise condizioni alcuni casi estremi di ricorso al suicidio assistito rimandando tuttavia al Parlamento la responsabilità di dettare le norme relative. La legge, approvata alla Camera, ora è al Senato dove però sono arrivati al pettine i nodi di regole che oltrepassano i confini fissati dalla Consulta, con l’inevitabile allungamento dei tempi per legiferare in modo condiviso su un tema così importante. A sostegno dell’istanza di Ridolfi si è schierata l’Associazione radicale Luca Coscioni, che si batte per legalizzare l’eutanasia e che chiedeva l’accesso immediato alla morte medicalmente assistita del paziente marchigiano anche in assenza di una legge.

«Da due mesi la mia sofferenza è stata riconosciuta come insopportabile – è la dichiarazione di Fabio Ridolfi rilanciata dall’Associazione Coscioni –. Ho tutte le condizioni per essere aiutato a morire. Ma lo Stato mi ignora. A questo punto scelgo la sedazione profonda e continua anche se prolunga lo strazio per chi mi vuole bene». Il paziente aveva diffidato l'Azienda sanitaria unica della Regione Marche per «effettuare in tempi brevi le verifiche sul farmaco» da usare per ottenere la morte, come spiega l’Associazione, «una diffida cui, però, l'Asur a oggi non ha mai risposto; decorsi i termini, i legali di Fabio avrebbero potuto legittimamente procedere con un'azione penale nei confronti dei responsabili dell'inadempimento per omissione di atti d'ufficio». Fabio ha deciso diversamente, appellandosi ai suoi diritti previsti dalla legge sul fine vita.

Alla vicenda di Fabio aveva dedicato una riflessione il 28 maggio il nuovo arcivescovo di Pesaro, Sandro Salvucci, affidandosi a una lettera: «Quando una persona arriva a scegliere di mettere fine alla propria vita – scriveva monsignor Salvucci – si impongono atteggiamenti di profondo rispetto per chi vive una sofferenza tale da fargli dire: “Che senso ha una vita così?”. In questi momenti occorre vicinanza fraterna. Con profondo rispetto vorrei quindi prima di tutto esprimere la vicinanza mia e di tutta la comunità cristiana a Fabio, alla sua famiglia, e a tutte le persone che vivono gravi situazioni di sofferenza, di solitudine, di sconforto: siete nel mio cuore e nelle mie preghiere. La richiesta di “suicidio assistito” da parte di Fabio fa comprendere l’urgenza che le comunità cristiana e civile si adoperino sempre più nel recare consolazione, cura, prossimità, speranza, affinché nessuno si senta solo, in ogni momento della propria vita, soprattutto nei momenti più difficili. La vita umana, ogni vita umana, è un dono ricevuto, che va tutelato e difeso in ogni condizione. Di fronte a queste situazioni così intime e personali dovremmo, anzitutto, evitare che diventino lo spazio di “battaglie” pubbliche, etico-politiche, tra credenti e non credenti, tra “conservatori” e “progressisti”. Tutto ciò va contro il bene comune, e contro il bene del malato stesso. È necessario invece incrementare spazi di dialogo, di cura, di prossimità, tra famiglie e società, tra cittadini e istituzioni, tra malati e curanti. Tutto lo si deve fare, come ci insegna Papa Francesco, nell’ottica del bene comune e dell’accoglienza, rispettando la libertà di ognuno e ricercando, allo stesso tempo, qualità nei rapporti umani. Solo in questo modo potremo avere una comunità capace di rendersi anche responsabile della vita di tutti i suoi membri, favorendo così la percezione in ciascuno che la propria vita è significativa e ha un valore anche per gli altri. Perché dietro ad ogni richiesta di suicidio o di eutanasia, non vi è la conquista di diritti civili, ma la sconfitta di una società che non riesce più cercare quel “bene che ci accomuna”, divenendo così sempre più incapace a star vicino alle persone e a trasmettere un senso anche in una situazione di difficoltà come quella di un malato che non può muoversi. Ogni vita umana ha un senso. Tuttavia, se manca questo rapporto intimo, di compassione, di amicizia inevitabilmente la vita è difficile da comprendere e le persone possono arrivare a voler morire. Per questo motivo, proprio in virtù del bene comune, non è condivisibile ogni azione che vada contro la vita stessa, anche se liberamente scelta. La strada più convincente è allora quella di un accompagnamento che assuma l’insieme delle molteplici esigenze personali (bio-psico-sociali-spirituali) in queste circostanze così difficili. È necessario chiarire che “inguaribile” non è sinonimo di “incurabile”: anche qualora una persona viva una condizione di malattia inguaribile è sempre possibile continuare a prendersi cura di lei, fino alla fine. È la logica delle cosiddette “cure palliative” che non rappresentano una resa davanti all’ineluttabilità di una malattia irreversibile, bensì un accompagnamento costante della persona malata per arrecare sollievo alle sue sofferenze. Si tratta di continuare a sussurrare al suo cuore: “Tu sei per me importante: la tua vita vale!”».

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