giovedì 30 novembre 2017
La drammatica vicenda del piccolo Charlie Gard, che ha commosso (e diviso) il mondo, e le formidabili implicazioni etiche del suo caso ricostruite da Assuntina Morresi in un documentato libro.
Qualità o dignità della vita? Cosa ci ha insegnato Charlie Gard
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È uscito il libro «Charlie Gard. Eutanasia di Stato» (l’Occidentale, 202 pagine, 13 euro) di Assuntina Morresi. ne proponiamo uno stralcio.

E’ sterminata la produzione scientifica dei saperi che qui si intrecciano, trattando della qualità della vita. Filosofia, sociologia, economia, medicina, psicologia, psicanalisi, ma anche letteratura: cosa è estraneo alla valutazione della qualità della vita?
Non è "appena" un concetto, ma una vera e propria filosofia di vita, un orientamento dei nostri tempi che affonda le radici in altri tempi e in scuole di pensiero di cui potremmo scrivere per anni.
La "qualità della vita" si associa sempre all’esempio del suo opposto, la non qualità della vita, identificata invariabilmente con un qualche handicap, parola scomparsa perché ormai politicamente scorretta, e sostituita dalla più elegante "disabilità". Valutare la "qualità della vita" significa in qualche modo misurare un limite di una persona, stimarne il peso in base alla dipendenza dagli altri che tale limite comporta, e quindi decidere se la situazione che ne deriva sia o meno sopportabile. Quando si parla di "sofferenza", a proposito di una condizione di malattia, raramente ci si riferisce al vero e proprio dolore, fisico o psichico che, per nostra fortuna, ai nostri giorni è sempre controllabile. Analgesici e cure palliative, nelle varie modalità di somministrazione, consentono di tenere sotto controllo il dolore fisico e psicologico, fino a quei sintomi refrattari che a volte si presentano nell’ultimo tratto di vita . La sofferenza a cui ci si riferisce nel valutare la qualità della vita generalmente è data dalla durezza e dalla gravosità di una condizione umana complessiva, che appare tanto più insopportabile quanto più richiede dipendenza, "dagli altri" o "dalle macchine" (che è un modo indiretto di essere dipendenti "dagli altri", visto che per far funzionare le macchine ci vogliono "gli altri"). Il limite rende dipendenti; l’imperfezione e il difetto tolgono l’autonomia a chi ne è affetto, e questo chiede un cambiamento a chi sta loro vicino, uno scarto notevole rispetto ai modelli di vita del nostro tempo. (...)
Il modello di vita che abbiamo davanti è quello smart, cioè efficienza e autonomia, quello del "vento fra i capelli", come scriveva molto efficacemente Piergiorgio Welby nella lettera in cui chiedeva l’eutanasia per sé al Presidente Napolitano.
Come già detto, non vogliamo certo tessere l’elogio della sofferenza, ma ricordare che il nostro è piuttosto il tempo dell’enhancement, del potenziamento dell’umano, e per questo il limite e la dipendenza, che restano il nerbo ineludibile della condizione umana, non sono tollerabili. Tolgono qualità alla vita.
Il best interests di una persona non può essere vivere, quando significa portare con sé un grande limite come una pesante disabilità. Il problema quindi si sposta nello stabilire la linea di demarcazione fra una vita di qualità e una vita senza qualità. Bioeticamente parlando, non è una novità: la letteratura a riguardo è immensa.
E cosa succede quando il miglior interesse non è più vivere, ma può anche diventare morire? Se diciamo che in certe condizioni è bene morire, allora il sistema di valori si rovescia, si cambia paradigma, anziché essere orientati al favor vitae lo si è al favor mortis. Cambiano i presupposti e di conseguenza, le finalità: il medesimo strumento giuridico da tutela diventa una trappola. (...)
Se suona assolutamente di buon senso che esista un Tribunale dei Minori a stabilire, per esempio, con chi debba andare a vivere un bambino, il problema sorge invece quando fra le questioni da decidere c’è anche se un bambino debba ancora vivere.
Il problema non è chi decide, se il giudice, i medici, i genitori, (o la persona stessa, nel caso sia capace di dare il proprio consenso), ma che cosa può essere oggetto di decisione. E’ inevitabile che ci siano autorità giudiziarie che, una volta puntata la bussola, debbano prendere decisioni anche importanti, cercando di stabilire il massimo interesse del minore, che non può scegliere per sé. Finché l’ago della bussola del sistema punta al polo del favor vitae le istituzioni non avranno mai potere di vita e di morte, l’esistenza stessa di una persona non potrà mai essere messa in gioco, e le altre decisioni collegate saranno, o dovrebbero essere, coerenti. In un contesto di favor vitae non sarebbe stato in discussione il distacco del respiratore da Charlie, e i giorni di vita da concedergli. Si sarebbe fatto come all’ospedale Bambino Gesù: la ventilazione si spegne quando non serve più, cioè quando c’è una diagnosi di morte, stabilita con criteri neurologici (la cosiddetta morte cerebrale) o se il malato guarisce. Oppure se, per qualche particolare situazione medica, quel ventilatore non è più efficace: non può più raggiungere il fine per cui è stato messo in funzione, cioè non consente più di respirare. Quest’ultimo caso è una valutazione, diciamo così, "interna" alla situazione clinica del malato, e prescinde da diagnosi e prognosi.
Ma una volta che si allarga l’oggetto del decidere e si stabilisce che lo stesso vivere può rientrare o meno in ciò che costituisce il massimo interesse per una persona che non è capace di dire cosa vuole per sé, salta il sistema di riferimento, viene giocoforza spazzato via quel grande corpo intermedio che è la famiglia - figuriamoci gli altri - e attraverso il potere giudiziario lo stato la farà da padrone con i singoli, schiacciandoli sotto il suo peso. E’ inevitabile.

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