sabato 23 aprile 2022
La foto della Via Crucis al Colosseo che ha fatto il giro del mondo ha un "segreto": Irina e Albina sono infermiere nell'hospice del Campus Biomedico di Roma. Ed è così che guardano i pazienti
L'ucraina Irina e la russa Albina, infermiere all'Hospice del Campus Biomedico di Roma, durante la Via Crucis al Colosseo

L'ucraina Irina e la russa Albina, infermiere all'Hospice del Campus Biomedico di Roma, durante la Via Crucis al Colosseo - Reuters

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«Non si può mai dire che non c’è più niente da fare con un malato, a partire dal modo di accostarsi a lui e di guardarlo» sottolinea don Robin Weatherhill, cappellano del Centro di cure palliative “Insieme nella cura” di Roma, della Fondazione Policlinico universitario Campus Biomedico. Infatti uno sguardo, carico di umanità e compassione, è il primo modo per entrare in relazione con il paziente, specialmente nell’hospice romano, dove medici, infermieri, ausiliari mostrano «una sensibilità superiore alla media», puntualizza don Weatherhill. Lo stesso sguardo che hanno mostrato al mondo Irina e Albina, le due infermiere, ucraina e russa (che lavorano proprio all’hospice “Insieme nella cura”), venerdì scorso durante la Via Crucis al Colosseo.
«Sempre si deve alleviare il dolore dei pazienti – chiarisce il sacerdote – ma in un hospice è un compito specifico. Sono persone con una patologia molto complessa, la terapia è di sostegno, non più mirata alla guarigione. Ma resta un luogo di vita». Il Centro “Insieme nella cura”, che segue 12 persone nell’hospice e 48 a domicilio, è nato nel dicembre 2020: «Il primo mese di attività – racconta don Weatherhill – mi sorprese tanto una donna, che mi disse: vi ringrazio perché mi avete restituito la dignità. È un po’ l’obiettivo: rispettare la dignità delle persone fino all’ultimo istante». E puntualizza: «Occorre distinguere tra dolore fisico e sofferenza morale. Il primo va combattuto con ogni mezzo. Anche la morfina, quando è necessario. L’altra è più profonda, riguarda l’anima, è legata al senso della vita e della morte: e la cura non viene solo dal cappellano, ma da tutta la squadra, meravigliosa, degli operatori dell’hospice, un gruppo molto affiatato. Anzi, il mio lavoro è facilitato dalla qualità dell’assistenza, i pazienti riconoscono di essere trattati con attenzione e cura, e ne sono grati: trovo già aperta una porta per instaurare un rapporto spirituale molto profondo».
«Ci sono momenti di intensissimo scambio tra i ricoverati e coloro che li assistono. Quante volte – ricorda il cappellano – ho visto le infermiere che stringevano le mani dei malati, o truccavano le pazienti. Oppure li abbracciavano negli ultimi istanti di vita: una situazione che le restrizioni per la pandemia hanno reso più frequente. E che dava consolazione anche ai parenti: "mia mamma è morta tra le loro braccia", mi ha detto una signora».
Spesso tutto nasce dallo sguardo: da un lato, quello «di queste persone che ti cercano con gli occhi perché devono solo riposare nei tuoi occhi, e tu ti commuovi – rievoca don Weatherhill –. Quante volte ho visto infermiere o medici piangere, uscendo dalle stanze» E dall’altro lo sguardo di chi assiste, come lo sguardo di Irina e di Albina : «È uno sguardo di affetto, verso persone che reclamano vicinanza, attenzione, tenerezza». «Ritengo un privilegio lavorare qui – conclude don Weatherhill –. Con le cure palliative non c’è spazio per l’eutanasia. Prevederla sarebbe un’ingiustizia, si farebbe del male a tante persone».

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