lunedì 18 marzo 2019
La discussa legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento (Dat), vigente da poco più di un anno, affronta il primo ricorso alla Consulta promosso da un giudice di Pavia sulle volontà del paziente
Legge sul fine vita sotto esame alla Corte costituzionale
COMMENTA E CONDIVIDI

Diversi giuristi l’avevano detto da subito: la legge 219/17, intitolata «Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento» e nota come legge sul biotestamento (o sulle Dat, o ancora sul fine vita), presenta dubbi di legittimità costituzionale. Un pensiero tutt’altro che peregrino: la Consulta se ne occuperà infatti nell’udienza pubblica di martedì 19 marzo, con camera di consiglio prevista per il giorno successivo. La posta in gioco è alta, dal momento che la stessa Corte ha annunciato questo procedimento tra le due «questioni di maggior rilievo» dibattute la prossima settimana. Fulcro del suo giudizio saranno i poteri dell’amministratore di sostegno – la persona nominata dal giudice tutelare per agire a vantaggio di un soggetto impossibilitato a curare i propri interessi a motivo di menomazioni o infermità fisiche o psichiche, anche temporanee – in materia di rinuncia alle cure della persona soggetta alla sua tutela. Attualmente, infatti, la legge 219/2017, in assenza di Dat, prevede che questa figura possa decidere anche la morte della persona che assiste in completa autonomia. La norma dispone l’intervento del giudice solo qualora il medico non sia d’accordo con la decisione e abbia il tempo, la voglia e le risorse economiche di ricorrere all’autorità giudiziaria per ottenere l’autorizzazione a proseguire le terapie a vantaggio del proprio paziente (il ricorso può essere presentato anche dall’amministratore di sostegno).


La questione è molto delicata, sotto il profilo umano prima ancora che giuridico. Molto spesso, infatti, l’amministratore di sostegno è uno stretto congiunto del malato, dunque suo erede: un coniuge, un figlio... In più, sulla scorta della nomina effettuata dal tribunale, egli deve soddisfare onerosi adempimenti: per esempio, il ricorso giudiziale ogniqualvolta nell’interesse della persona tutelata ritenga necessario compiere un atto di straordinaria amministrazione. In ogni caso, è obbligato a preparare una dettagliata relazione annuale sulla gestione del patrimonio posseduto dal malato. Insomma: in teoria l’amministratore di sostegno potrebbe trarre vantaggio dalla morte della persona che assiste. Ma la legge 219 non pone alcuna tutela a garanzia di quest’ultima.
S’innesta qui l’ordinanza di Michela Fenucci, il giudice tutelare di Pavia che ha firmato l’atto ufficiale da cui prenderà le mosse il giudizio costituzionale, iniziativa che come sempre in questi casi ha sospeso il procedimento giurisdizionale in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sulla correttezza o meno della legge. Il magistrato pavese si è trovato dinanzi a un paziente in stato vegetativo, sostentato da alimentazione e idratazione assistite, al cui amministratore di sostegno doveva essere attribuita l’esclusiva rappresentanza in ambito sanitario. Compresa dunque – sulla scorta della legge 219/2017 – la possibilità di decidere per la morte della persona tutelata.

Una conseguenza inammissibile, secondo il magistrato, che in 18 pagine argomenta tutti i suoi dubbi circa la rispondenza di questa norma ai valori della Costituzione. Non si può «privare un incapace, soltanto per il fatto d’essere incapace, del diritto di decidere sui citati trattamenti (quelli oggetto delle Dat, ndr) – si legge nell’ordinanza –, pena la violazione degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione», vale a dire quelli posti a tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, della pari dignità di ognuno e del diritto alla salute. «L’incapace è una persona a tutti gli effetti», puntualizza il giudice, e conseguentemente ricorda come «nessuna limitazione o disconoscimento dei suoi diritti si prospetterebbe come lecita». Piuttosto, argomenta Fenucci, «la condizione di incapacità può rilevare alla stregua di un ulteriore, differenziato piano, quello concernente le concrete, fattuali modalità di esercizio del diritto, lasciando però impregiudicata la sussistenza del medesimo». Modalità che per il giudice tutelare dovrebbero imporre in questi casi un’indagine sulle «convinzioni religioso-filosofiche e inclinazioni culturali» del paziente, e non un semplice «giudizio obiettivo» – è questo un importante passo dell’ordinanza – governato da quello che negli ultimi mesi, più volte, è stato giudizialmente definito il best interest, il (presunto) miglior interesse della persona che non può esprimersi autonomamente. Si tratta di casi come Alfie, il bimbo cui l’ospedale di Liverpool – sostenuto dai giudici – un anno fa negò le cure contro il volere dei genitori.


Si chiede a questo punto il giudice di Pavia: possibile che il Codice civile subordini il compimento di alcuni atti patrimoniali (per esempio la vendita di beni) da parte dell’amministratore di sostegno all’assenso del tribunale, e poi la legge 219 gli consenta di far morire la persona tutelata senza alcun previo controllo giurisdizionale? È una violazione «dei diritti alla vita, alla salute, alla dignità» e pure «all’autodeterminazione», principio chiave della legge sul "biotestamento", presente fin dalla sua prima riga ma del tutto negata in una «complessiva irragionevolezza» alle persone incapaci. Tutto ciò per il magistrato ordisce «una trama normativa contraddittoria tutta interna alla legge».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI