Cosa ci dice l'eutanasia della giovane Siska

Il decesso domenica 2 novembre, annunciato dai media delle Fiandre, la regione del Belgio di cui la 26enne era originaria. Nel racconto ai media durante le sue ultime settimane la denuncia dell’abbandono in cui un sistema dove l’eutanasia è legale da tempo lascia i casi più difficili. Come il suo
November 5, 2025
Cosa ci dice l'eutanasia della giovane Siska
Siska De Ruysscher, 26 anni, morta il 2 novembre nelle Fiandre per eutanasia, durante una sua recente intervista televisiva (Cathobel.be)
«Ho lottato per metà della mia vita per arrivare al mattino successivo, e ora sono arrivata al punto in cui è diventato insopportabile. Sono esausta. Non cerco più». Siska De Ruysscher, 26 anni, fiamminga, è morta domenica per eutanasia. L’aveva annunciato, chiedendo e ottenendo l’accesso alla morte volontaria con aiuto medico come prevede la legge del Belgio per casi di sofferenza che il paziente ritiene intollerabile. E Siska era ormai stremata dalla depressione che la serrava in una morsa sin dalla preadolescenza.
Ma la sua rinuncia a vivere, raccontata sui media belgi nelle ultime settimane, ha assunto davanti a un’opinione pubblica scossa dal caso di una bella ragazza che vuole morire il peso della denuncia di un sistema sanitario che ha rinunciato a curare e che attende solo che il paziente faccia la sua scelta: proseguire in cure che in casi di malattie inguaribili sembrano inutili o farla finita?
Siska era depressa. Uno stato ormai cronico, sin dal primo tentativo di suicidio a 14 anni dopo essere anche stata vittima di molestie. Un desiderio di spegnere la luce della vita che aveva trovato sfogo in molti altri episodi. Raccontando la sua storia quando ormai la decisione di morire era presa ha però voluto sensibilizzare sulla salute mentale e la spaventosa incuria in cui ormai è lasciata nel Paese: «Racconto la mia storia – ha detto a Het Laatste Nieuws, quotidiano fiammingo di Anversa, che ha diffuso la notizia della sua morte – perché penso che molte cose debbano cambiare nel sistema sanitario: le procedure, le liste d’attesa, i rimborsi, i ricoveri forzati. Io sono il prodotto di un sistema fallimentare».
Non che il Sistema sanitario belga non fosse consapevole della sua situazione: Siska aveva ricevuto la diagnosi di grave disturbo depressivo e di sindrome da stress post-traumatico. Quello che la giovane non ha trovato però è qualcuno che la guardasse negli occhi e si prendesse cura della sua vita, che lei sentiva andare verso il naufragio, sempre più impotente di fronte al buio di giornate colme di dolore.
In questo labirinto, Siska ha sperimentato invece quanto possa essere indifferente un sistema che dovrebbe “curare”: «Procedure. Liste d’attesa. Rimborsi... Sono stata rinchiusa in celle di isolamento, mi hanno sedata, mi hanno legata su barelle, ho visto gli infermieri alzare gli occhi al cielo, come per dire “eccola di nuovo qui”. Posso contare sulle dita di una mano gli operatori sanitari competenti che ho incontrato». Un vicolo cieco nel quale ha smesso di illudersi «che la situazione migliorerà domani – è stata una delle sue ultime riflessioni pubbliche –. Ma è solo quando si raccontano queste cose, e quando anche altri lo fanno, che forse un giorno qualcosa potrà cambiare».
Siska sembra aver inteso la sua volontà di morire come un gesto necessario a scuotere la gente dall’indifferenza. Per una sanità inefficiente, certo. Ma forse soprattutto per la sostanziale rinuncia a curare davvero nei casi in cui questo sembra inutile perché non c’è “miglioramento” né tantomeno possibilità di guarigione. E se l’alternativa a questa resa è l’eutanasia legale, allora può prendere corpo nelle coscienze l’idea che vivere diventi una inutile ostinazione. La morte per eutanasia come opzione equiparata alla prosecuzione della vita, con lo svantaggio per questa scelta della sofferenza crescente e del peso per sé e gli altri, produce l’effetto di abbandonare i pazienti che presentano le situazioni più dammatiche. Perché insistere se c’è una soluzione immediata e definitiva? C’è davvero da chiedersi, mentre rendiamo omaggio a Siska e alla sua drammatica vicenda, se è questo che pensiamo sia un bene per il nostro Paese, un “diritto”, un passo avanti nella libertà e nella dignità. Siska ha parlato, ascoltiamo il suo grido.
I media fiamminghi ci aiutano riferendo il suo «ultimo messaggio»: «Al mondo che lascio vorrei dire: siate comprensivi, anche con le persone che non conoscete, e non sottovalutate la gravità della vulnerabilità psicologica, anche se non è immediatamente visibile. Ascoltate. E con questo intendo: ascoltate davvero. E lasciate che le persone si esprimano, senza giudicare immediatamente. Ai curanti vorrei dire: abbiate il coraggio di mettervi in discussione. E alle persone che si riconoscono in questa situazione: raccontate la vostra storia. Perché sì, questo può fare la differenza».
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