giovedì 25 ottobre 2012
I decenni precipitano, economia, lavoro e il resto pure, ma una parola procede con fronte metallica: «vincente», contrapposta, va da sé, a «perdente». La si attribuisce alle persone, eppure i vocabolari, anche i più aggiornati, la riferiscono in primo luogo alle cose, «un biglietto vincente», «un numero vincente», o a un animale in gara, «un cavallo vincente». Solo in secondo luogo la collegano alle persone, e in senso figurato: «Chi riesce bene in tutto quello che fa». L'accento è messo su un altro verbo, «riuscire», accompagnato da un avverbio interessante, «bene», oltre che da un termine assoluto come «tutto». Si può dire che «riescano bene in tutto» quelli che ci vengono per lo più proposti come «vincenti»? «Basta guardarli» ha scritto Giuseppe Pontiggia in un aforisma che collega la parola all'evidenza della realtà. Ma poi, ci siamo mai fermati a pensare che la maggior parte degli uomini e delle donne che ammiriamo come eroi molto spesso sono stati dei vinti? Persone il cui valore, nella società dove vivevano, non era riconosciuto, e che a volte hanno pagato con la vita. Vinti che alla fine hanno vinto. Che cosa dobbiamo dedurne? È questo che ci dobbiamo aspettare? La lotta, con la possibilità piuttosto concreta di perdere? Chissà, anche. Di certo, un'idea più complessa di cosa è «vincere».
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