mercoledì 19 novembre 2014
Quando, da ragazzo, lessi Linea della vita di Giorgio Vigolo, rimasi colpito da questa tremenda poesia: «Troppo dolore più non si risolve / in alcuna operazione sublime; / non si trasporta questa / pena in chiave di gaudio. / Essa è male e soltanto male, / distruzione senza rimedio / della poca vita che avanza. / È acido che brucia le radici. / Il dolore ha intaccato la sostanza».Linea della vita è del 1949, e riprendeva con altri testi la raccolta d'esordio dal bellissimo titolo Conclave di sogni (1935). Non ho mai perso di vista Giorgio Vigolo (1894-1983), sommo traduttore di Hölderlin, studioso del Belli e critico musicale che leggevo anche su Epoca. Mi faceva un po' paura un poeta così triste, segnato dalla vita, e mi rammaricavo nel vederlo schedato nel dimenticatoio dei poeti e prosatori d'arte di scuola più o meno vociana, insieme ad altri colleghi della sua generazione, Vincenzo Cardarelli incluso.Opportunamente Bompiani ha pubblicato Roma fantastica (pp. 168, euro 11), romanzo incompiuto al quale Vigolo lavorò per tutta la vita, decidendosi a pubblicarlo, per insistenza di Pietro Cimatti, un anno prima di morire. È una strana storia che risente dell'esoterismo di Arturo Onofri, che Vigolo frequentò da giovane per poi allontanarsene, e racconta l'avventura di un ricercatore di antiche partiture musicali il quale, in una Roma fantastica (appunto) trova (e ruba) uno spartito del Quattrocento dedicato a una misteriosa Virgilia, poetessa e musicante, con il fantasma della quale il giovane viene in contatto, innamorandosene.Mi vergogno di banalizzare così una storia arcana il cui pregio è innanzitutto nella scrittura, ormai così desueta, che Pietro Gibellini (altro profondissimo conoscitore e editore critico del Belli) magistralmente certifica: «L'indistinguibilità del reale dal virtuale, il trapasso dal verosimile al magico, è operato per via di narrazione memoriale, oppure di trasognamento in atto attraverso metamorfosi spaziali e/o temporali che tocca al lettore assegnare alla forma di visio prodigiosa o di condensazione onirica».In un ampio saggio, Simone Caltabellota confuta anche un giudizio riduttivo di Elémire Zolla che aveva scritto: «Con tutta la passione musicale, con tutto il virtuosismo profusi, invece di avere una visione vera e propria, Vigolo ha accarezzato l'idea di averla». Caltabellota ritiene invece che «nella Virgilia Vigolo abbia toccato davvero qualcosa che doveva essere maneggiato con estrema cura, qualcosa che non poteva essere mostrato esplicitamente, neppure in forma di visione letteraria».Vigolo è cantore di una città, Roma, con la quale si identifica in pieno, ma la sua ricerca, da spaziale, diventa temporale per entrare nelle frane, nelle faglie del Tempo. In Autobiografia immaginaria ha scritto: «Risalire il tempo, riandare il fiume a ritroso... Finirai con l'accorgerti che, dove credevi di inventare, lì solo veramente sei riuscito a ricordare».E tutta la vicenda è permeata di musica, al punto che Vigolo riporta una lettera di Raffaello in cui il pittore dichiara che l'affresco del Miracolo di Bolsena, nelle Stanze vaticane, gli è stato ispirato dalla Messa di Josquin des Prés (1440-1521). Raffaello ha inteso «rendere nella detta stanza con figure dipinte il moto dell'anima che mentre ascoltavo quelli canti serafici, m'apparve come rapita da questo carcere del corpo».Chissà che questa nuova edizione, curata da Magda Vigilante, di un racconto che Vigolo lasciò decantare per sessant'anni, non richiami l'attenzione su un autore e su una stagione letteraria che non può restare confinata in sporadiche tesi di laurea.
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