domenica 17 giugno 2018
Le urla non le possiamo sentire, perché non giungono fino a noi. Anche loro restano segregate dentro enormi stanzoni di edifici fatiscenti e sporchi, circondati da alti muri di cinta, dove tutti stanno seduti per terra in condizioni di squallore ad aspettare il proprio turno di supplizi, nella camera della violenza. Prima, però, le suppliche saranno state ripagate con le bastonate e le botte per consolidare una condizione di sottomissione e definitivamente annichilire ogni possibile resistenza residua.
Poi, con il tempo, lentamente le urla si scioglieranno nell'aria umida e calda, lentamente si affievoliranno come fa un corpo che si prosciuga della propria anima. Si perderanno nel silenzio muto di occhi paralizzati spalancati di fronte alla visione dei propri seviziatori a cui ci si abbandonerà come agnelli sacrificali, perché senza alcuna alternativa, né speranza che qualcuno giunga presto in soccorso.
E nell'aria sospesa, si diffonde solo un doloroso singulto di pianti.
Tante volte mi sono chiesto, avendo guardato negli occhi delle vittime dell'immonda crudeltà di cui l'essere umano è capace, quanto tempo occorre per guarire da una violenza subita, quante stagioni della propria vita servono per risanare una identità ferita, umiliata nel corpo, picchiata e abusata? La risposta non l'ho mai trovata: negli occhi che ho incontrato, ho visto solo e sempre buio, a conferma che la parola "gioia" è sempre ancora troppo lontana per essere afferrata, come il prodigio di un salvagente in mezzo al mare.
Se le urla non le possiamo sentire – e forse è anche per questo motivo che, spesso, le nostre coscienze navigano nel mare dell'indifferenza, di fronte a quanto accade sulla strada dei migranti che lasciano l'Africa –, tuttavia ci corre l'obbligo morale di immaginarle, anzi addirittura vederle nella loro orrenda realtà, quando dagli schermi di un televisore ci vengono proposti gli sguardi muti e rassegnati degli ex prigionieri della terra libica che dopo mille inferni sono riusciti a scavalcare il Mediterraneo per arrivare in Europa.
Quante volte abbiamo sentito e letto che su quei barconi stracarichi di migranti, pescati in mezzo al Canale di Sicilia, «ci sono anche donne incinte, già avanti nella gravidanza», «sembrano sole, non accompagnate da un marito», «tutte molto giovani, tutte ventenni», «nessuna che sorride». Ecco, loro sono l'urlo che non riusciamo a sentire, ma che dobbiamo vedere. Lo scenario fronteggiato dalle donne che attraversano le piste dell'esodo africano è agghiacciante. Soprattutto perché già conoscono il loro destino. Sanno che saranno violate. E non sarà una sola volta, quando si affronta un viaggio di mesi, a volte anche di anni nel deserto dominato da predoni e carnefici. Dunque si preparano. Come fanno le giovani ragazze che partono dal Corno d'Africa, specie etiopi e eritree. Donne che sono figlie, mogli, fidanzate o anche già madri, che in Sudan si fanno somministrare per via intramuscolare alti dosaggi di anticoncezionali che per diversi mesi impediscono l'ovulazione. Senza consulenza medica e senza la consapevolezza sugli effetti del farmaco, che mette a rischio la loro futura salute riproduttiva.
Quanto tempo occorre a una vita per dimenticare i traumi psicologici per le violenze subite e seppellire definitivamente nel pozzo dell'oblio le terrificanti visioni cui ha assistito? Traumi imprigionati in quegli sguardi muti e rassegnati che vediamo sbarcare da una nave salvatrice, nei telegiornali all'ora di cena.
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