sabato 28 luglio 2018
Di fronte a me un folto bosco di larici e pini, fitto nel suo verde cupo, aspetta i raggi del sole del mattino che lo riscaldino dall'umidità della notte. Queste ore oscure che non fanno dormire aumentano la misura del problemi del giorno passato. Non ragionano i sogni, ma regalano soluzioni che al mattino scompaiono, si rivelano impossibili o inadatti alla nostra vita. Allora ti scopri solo nelle decisioni e vorresti quasi non avere scelta ed essere costretto a prendere l'unica strada che ti sembra vedere davanti a te. Più passano gli anni, più la via sembra stringersi e, più ti viene chiesto, meno ti sembra facile rispondere, così i piccoli malanni del corpo rendono aspro il carattere. Bisogna scoprire di ogni età la propria bellezza e saper scegliere tra ciò che si amerebbe fare, quello che ancora ci è possibile. La vita, questa cosa che non sappiamo racchiudere in confini precisi, né descrivere con parole che diano risposta certa, ci renderà interessante ogni nostro giorno fino alla sua fine se avremo saputo rispettarla. Quante volte ne gettiamo via le ore migliori, non ascoltando quello che la sua voce ci suggerisce mentre, come diceva nelle sue poesie Cardarelli, «facciamo orge di tempo». Una vita che vale non pretende un affanno continuo, un'attività senza pace, ma fermarsi ad ammirare i petali di un fiore di campo o ad ascoltare il respiro delle onde del mare, ci insegna il valore che ha ogni istante che passa. E di questo dovremmo renderei conto quando ci lamentiamo delle nostre piccole cose, dei guai di famiglia, delle difficoltà del lavoro senza guardare a chi soffre nella povertà senza limiti che troppo spesso questo tempo offre a chi perde anche il senso dell'esistenza. L'abbandono della terra, degli amici, della propria lingua, di una comunità nella certezza di trovare una civiltà migliore, spinge intere popolazioni a lasciare i luoghi dove sono nati e affrontare quel mare che spesso ingoia la loro vita. E qui nasce agli uomini di fede il problema dell'accettare o meno l'arrivo di questi profughi che cercano un futuro che in realtà neppure noi possiamo loro offrire. Fino a che punto è giusto mandare indietro le barche che gridano pietà e qual è il confine entro il quale dobbiamo accettare di perdere anche una parte delle nostre comodità per condividere la pena, il dolore di aver lasciato la propria gente senza speranza di un possibile ritorno? Quanti di noi hanno avuto i propri nonni così sofferenti per la povertà e l'incertezza di un futuro possibile, da essere pronti ad affrontare viaggi difficili per ottenere un pezzo di terra dove dar da mangiare ai propri figli. E non parlo di un tempo antico, ma dei primi mesi dopo questa nostra guerra perduta quando la politica stessa del nostro Paese incitava i più poveri a cercare lavoro anche lontano, fuori d'Italia pur di sopravvivere alla povertà del momento. Quella di oggi è un'epoca difficile da affrontare se non sappiamo, nemmeno noi popoli europei, trovare una conclusione accettabile a un problema così vasto e difficile che non ha un suo limite nella volontà politica, ma pretende un suo spazio anche nel senso profondo della pietà.
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