sabato 17 maggio 2014
Mercoledì, in prima del Corsera, sulle ragazze cristiane rapite e, secondo i loro carcerieri, «convertitesi all'islam» la domanda compassionevole: chi non farebbe lo stesso davanti a minaccia di morte? Ieri, su tutte le pagine e soprattutto su quella di questo giornale, da Khartum un'altra faccia della tragedia: «Meriam, accusata di apostasia perciò condannata all'impiccagione… perché non abiura». È anche risposta a quella domanda. Nel corso di due millenni centinaia di migliaia di uomini e donne, cristiani ma anche ebrei e di altre fedi, hanno affrontato la morte per la loro scelta di credenti, e sono chiamati «martiri». Ecco: pur tenendo conto che la storia è fatta di "fatti", e che in essa ci sono stati anche eventi dolorosi dei quali va chiesto perdono a Dio e agli uomini – da parte cattolica lo si è già fatto, come nel solenne mea culpa di Giovanni Paolo II nel 2000, e si deve sempre continuare a farlo – va ricordato che tra ebraismo e cristianesimo da una parte e islam dall'altra una differenza reale è esistita ed esiste proprio nella sostanza di ciò che è chiamato «martirio». Per cristiani ed ebrei «martire» è chi viene ucciso per la sua fede, mai chi per la sua fede uccide altri. Non è differenza da poco.
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