mercoledì 13 ottobre 2010
Dopo la parentesi di Vento scomposto (2009), in cui veniva convincentemente affrontato l'orrendo problema degli abusi di certe assistenti sociali che sottraggono i figli ai genitori col pretesto di inesistenti abusi familiari, Simonetta Agnello Hornby " che dal 1972 è avvocato a Londra " ritorna al suo paesaggio preferenziale (la Sicilia d'antan) con La monaca (Feltrinelli, pp. 304, euro 17). È un romanzo prima bellissimo, poi bello, infine così così. L'argomento è scabroso. Viene raccontata la storia di Agata, monacata per forza e ansiosa di smonacarsi per assecondare le ragioni del cuore. Detto così sembrerebbe un romanzo d'appendice, tipo Clelia. Il governo dei preti, scritto da Giuseppe Garibaldi nel 1870. Invece no. Siamo a Messina, nel 1839. La famiglia Patellani di Opiri, di antica nobiltà, ostenta un tenore di vita superiore alle proprie possibilità, ed è un bel problema allestire la dote per le sei figlie. Le prime quattro, bene o male, sono state sistemate, ma ne restano ancora due: Agata e la piccola Carmela. Quando muore il capofamiglia, il simpatico e svagato don Peppino, gentiluomo del re e maresciallo borbonico a Messina, la responsabilità ricade tutta sulla madre, la dispotica donna Gesuela, la quale ha già designato il convento per Agata. Non importa che la ragazza sia innamorata di Giacomo i cui genitori, peraltro, hanno già scelto per lui una sposa ricca: Agata entrerà nel convento di San Giorgio Stilita, a Napoli, di cui è badessa la zia paterna, donna Maria Crocifissa. La ragazza non ha la vocazione monastica, vuole sposarsi e diventare madre, tanto più che il posto di Giacomo, rivelatosi imbelle, viene gradualmente preso da James Garson, giovane ufficiale inglese incontrato sul piroscafo nel viaggio verso Napoli, il quale la rifornisce di libri inglesi e francesi, con predilezione per Jane Austen. Il convento si rivela un nido di vipere. Determinante è la differenza di censo fra le monache, che hanno diritto al titolo di «donna», le converse e le serve; ci sono rivalità, odii e dispetti, tentativi di avvelenamento, con un confessore che ingravida una monaca che morirà di aborto. Il tutto sotto il controllo di un ambiguo cardinale, cugino di don Peppino Patellani. Ci sono tutti gli ingredienti per un pamphlet anticattolico, invece la sulfurea materia è trattata con levità. Il diabolico convento è presentato come caso singolo, anche se la monacazione forzata era prassi dell'epoca, e del resto anche lì dentro c'è chi vive correttamente, come la stessa zia badessa e come la maestra delle novizie, donna Maria Giovanna della Croce, che è addirittura una mistica. Pure Agata finisce per adattarsi alla nuova situazione, impara ad amare il silenzio e la preghiera, al punto che preferirebbe restare in convento anziché sposare il vecchio e repellente cavalier d'Anna, scelto per lei da donna Gesuela, ormai rassegnata alla mancanza di vocazione della figlia. Ma un incontro fortuito e carnale con James, con il quale non si era interrotta la consuetudine libresca, fa precipitare il tutto. Il romanzo, che sta un po' fra il Gattopardo e la storia della monaca di Monza, ha un avvio felicissimo con perfette descrizioni dei rituali di un'aristocrazia al tramonto eppure tuttora orgogliosa di sé, e con la rigorosa ricostruzione delle abitudini monastiche, in una lingua in cui anche il vernacolo e la citazione inglese hanno la collocazione giusta. Ma poi, gli echi patriottici che giungono ad Agata, divenuta donna Maria Ninfa, attraverso il cognato mazziniano e massone, sono di maniera e, soprattutto, l'aggrovigliato finale con colpi di scena innecessari e divagazioni poco verosimili, fanno perdere credibilità a tutta la storia, che pure non manca di originalità e di una sua correttezza.
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