martedì 6 aprile 2021
Sta facendo discutere, nei pensatoi di politica internazionale e forse anche in alcune cancellerie che contano, un saggio apparso due settimane fa su "Foreign Affairs". E' questa, da quasi un secolo, la più influente rivista americana indipendente dedicata alle grandi questioni mondiali, che viene pubblicata ogni due mesi dal Council of Foreign relations di New York. Nel suo ultimo numero, proprio il presidente del Council, Richard Haass, in tandem con Charles Kupchan della Georgetown University, firma una rivoluzionaria proposta di riassetto delle relazioni internazionali, che chiama in causa l'Europa nel suo insieme e non più singoli attori nazionali, anche se di antico lignaggio.
Gli autori, al termine di una approfondita riflessione condotta da un gruppo di studiosi appositamente creato, lanciano l'idea di un nuovo "concerto" delle grandi potenze, sul modello di quello fissato nel 1815 dal Congresso di Vienna, che pose fine alle guerre napoleoniche e stabilizzò i rapporti fra le nazioni per buona parte del 19° secolo. A quel tempo, il "grande gioco" era ristretto a Inghilterra, Francia, Russia, Prussia e Austria-Ungheria. A distanza di due secoli, i "players" dovrebbero essere sei: Stati Uniti, Cina, Russia, Unione Europea, India e Giappone.
Impossibile sintetizzare in poche righe i dettagli della proposta, che ha come obiettivo principale la stabilizzazione dei rapporti fra grandi potenze, creando un luogo di confronto e di consultazione permanente, in grado di raffreddare vecchie e nuove tensioni e agevolare il dialogo pacifico. Il tutto, è ovvio, nel nome di una risorgente "realpolitik", che prende atto della perdita di peso relativa dell'Occidente e punta a sopperire all'incapacità ormai cronica dell'Onu di gestire conflitti e crisi locali.
In realtà, lo schema prevede il mantenimento dell'attuale architettura dei rapporti internazionali, Nazioni Unite e organizzazioni regionali comprese, ai quali il "concerto a sei" offrirebbe un supporto decisivo sul piano politico e strategico, prima ancora che diplomatico. Esplicita, e non certo indolore sul terreno delle idee, la presa d'atto dell'esistenza di regimi autoritari accanto alle democrazie tradizionali, che rinuncerebbero così all'ipotesi di "esportare" il proprio modello, conservando tuttavia il diritto alla critica esplicita e alla difesa dei popoli che si ritengono offesi da governi oppressivi.
Come tutte le proposte del genere, partorita a tavolino seppure molto articolata, anche questa è e sarà oggetto di discussione e critiche ai vari livelli. Quello che qui interessa evidenziare è il ruolo di protagonista che nel "concerto" si vorrebbe assegnare all'Unione Europea, escludendo invece singoli membri storici del Consiglio di sicurezza Onu come Francia e Inghilterra o "pesi massimi" economici come la Germania.
Pur consapevoli che la Ue è governata da Consiglio e Commissione in maniera collettiva e spesso "impacciata", gli autori spiegano che "il peso geopolitico dell'Europa deriva dalla sua forza aggregata, non da quella dei suoi singoli Stati membri". E citano l'esempio di Berlino, che con i suoi 40 miliardi di dollari spesi per la Difesa, rispetto ai 300 dell'Unione aggregata, ha poco da alzare la cresta rivendicando il suo maxi-Pil. Quanto al recente e ancora complicato divorzio tra Bruxelles e Londra, un seggio comune nel "concerto" sarebbe, secondo i proponenti, un forte incentivo a restare collegati "quando si tratta di politica estera e di sicurezza".
Che un giorno si arrivi al nuovo assetto o meno, la lezione è eloquente. Se il Vecchio Continente non saprà compattarsi sul serio, rischia di tornare di moda la definizione che Klemens von Metternich coniò nel 1847 per l'Italia: l'Europa? "Un'espressione geografica".
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