martedì 25 luglio 2017
Segnali ce n'erano già stati molti, ma il campanello d'allarme più forte era squillato nel marzo di due anni fa, quando la polizia bulgara rintracciò nella regione nord-orientale di Shumen un vero tesoro archeologico, composto di 9mila pezzi, fra i quali anche un reperto sumero antico di quasi 5mila anni. Il tutto proveniva dai territori iracheni appena occupati dallo Stato islamico ed era destinato a collaudati canali di contrabbando internazionale. Altri sequestri importanti erano già avvenuti in Turchia e, contemporaneamente, diverse immagini satellitari documentavano migliaia di scavi in corso nelle aree di Iraq e Siria sotto il controllo del Daesh.
Pur non avendo lo spessore economico di altri traffici più redditizi, come quelli di armi e droga, anche il commercio clandestino di beni culturali si rivelava così una fonte privilegiata e crescente di finanziamento per il terrorismo internazionale targato Isis. Novità non certo inattesa, visto che dopo le guerre del Golfo saccheggi e trafugamenti non erano mancati, ad opera di diversi protagonisti. Ma a quel punto si aveva la certezza che bisognava prepararsi a una vera ondata di arrivi illegali, con annessi danneggiamenti spesso irreparabili.
Non più solo distruzioni simboliche, dunque, come a Palmira, ma anche un business da alimentare con metodica perizia e il supporto di potenti mafie internazionali. L'allarme è così scattato in tutto il mondo. A fine marzo, durante il primo "G7 Cultura" a presidenza italiana, è stata firmata la "Dichiarazione di Firenze", in cui per la prima volta la tutela dei world heritages saliva alla ribalta di un vertice dei Grandi. Nel testo particolare attenzione era rivolta proprio all'esigenza di combattere il saccheggio dei tesori universali a scopi di crimine internazionale.
E sia pure con le solite lentezze procedurali, anche l'Europa si è rimboccata le maniche. Da ultimo, con il varo di un regolamento vincolante per tutti i Paesi membri dell'Unione, presentato a metà luglio a Bruxelles, in attuazione di un più vasto piano di lotta contro il finanziamento del terrorismo illustrato all'Europarlamento a inizio febbraio. In precedenza l'Unione si era già dotata di forme di vigilanza e di divieto particolari nei confronti di quanto poteva arrivare dai teatri di guerra iracheno e siriano. Ma ora scatterà una nuova disciplina generale che dovrebbe contenere al meglio l'inquietante fenomeno. Un giro di vite che impone l'obbligo di certificati e licenze e che sanziona con pesanti multe e sequestri ogni violazione.
Anche perché non di sole terre del Califfato si nutrono gli squali che nuotano negli oceani dei beni culturali. Dal 9 all'11 gennaio di tre anni fa ad esempio, a Casablanca, presenti anche diversi esponenti di governi occidentali e rappresentanti della Commissione Ue, si tenne un importante incontro euro-africano, per mettere assieme conoscenze e strategie di contrasto al crescente commercio in materia. All'epoca il giro di affari veniva calcolato in almeno 10 miliardi di dollari l'anno. Ma attenzione: nell'appuntamento marocchino si parlava dei giacimenti culturali a rischio presenti nei Paesi africani, non meno sotto attacco di quelli mediorientali. Saccheggi, al solito, resi più facili dal crescente numero di conflitti locali e dalla povertà endemica, che a loro volta sottraggono alle popolazioni vittime una parte importante della loro identità comune.
Mentre quindi si discute e a volte si favoleggia di "piani Marshall" per l'Africa, l'Europa fa bene ad attivarsi per salvare il salvabile, in attesa di impegnarsi per la futura crescita equilibrata di popolazioni che, come quelle dei Paesi flagellati dalle guerre del Daesh, preferirebbero di gran lunga restare a vivere nei luoghi di origine, piuttosto che alimentare i flussi di un'emigrazione disperata. E visto che i clienti del traffico di oggetti d'arte antica sono soprattutto occidentali, fa pure meglio se riesce a evitare la paradossale nemesi di finanziare, con acquisti illeciti di beni altrui, proprio quell'Isis che promette di distruggerla.
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