martedì 24 aprile 2012
Passi al semaforo, arriva il fischio, fermi e torni indietro per spiegare. Capita anche qui. Mercoledì scorso ho cercato anch'io di far capire ai colleghi del "Fatto" la differenza tra il suicidio del "povero" Welby e quello della "povera" poetessa Antonia Pozzi. Non so se ci sono riuscito, ma su altri due interventi – Guarini ("Il Foglio": "Quella strana idea di Ravasi sul suicidio che non sarebbe sempre peccato mortale") e Veneziani ("Il Giornale": "Quando si celebra messa per un suicida") – ho scritto sbrigativamente che «non sanno ciò di cui scrivono». Via email un fischio mi chiede di spiegare. Ci provo. Guarini sbaglia a sostenere che per Ravasi «il suicidio non sarebbe sempre peccato mortale». Catechismo cattolico: l'atto suicida è sempre "materia" di peccato grave, detto mortale, ma perché questo ci sia formalmente occorrono «piena avvertenza e deliberato consenso», e chi celebra Messa per un suicida suppone che questa doppia realtà sia mancata. Nel caso della Pozzi la supposizione regge, nel caso Welby non pare proprio, viste le cronache del tempo. E non è cosa nuova. «Padre, perdona loro! Non sanno quello che fanno!»: sulla croce Gesù prega per i suoi carnefici. Veneziani è più problematico: per lui «cristianamente non si può distinguere tra suicidio e suicidio, meglio condannare l'atto e salvare l'autore in ambo i casi». Ha ragione in parte, ma quel rifiuto delle esequie non fu condanna per il "povero" Welby – i cuori, anche il suo, li vede e li "salva" solo Dio – disse soltanto la non approvazione pubblica del plateale uso ideologizzato "pro eutanasia" perseguito fino in fondo. Catechismo e Vangelo: modernità che sorprende e fa pensare.
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