mercoledì 14 agosto 2013
In Sindbad torna a casa (Adelphi, pp. 200, euro 18), Sándor Márai ha tracciato un profilo autobiografico di Gyula Krúdy, scrittore ungherese morto a 55 anni nel 1933, ammirato da Márai al punto da identificarsi – quasi – con i suoi temi e con la sua opera. Per questo ho parlato di «profilo autobiografico»: perché Márai parla di Krúdy, ma in realtà parla di sé. La premessa che Márai scrisse nel 1978 per l'edizione tedesca del libro, debitamente riprodotta dalla curatrice italiana Marinella D'Alessandro, spiega chi era Krúdy e perché Márai si era in lui riconosciuto. Krúdy fu scrittore di successo più fra i critici e i colleghi che non presso il grande pubblico, ma nei suoi ultimi anni era stato quasi dimenticato. Scriveva di un'Ungheria che, dopo la caduta dell'impero austroungarico, non c'era più, e proprio per questo Márai l'aveva amato, perché era proprio di quell'Ungheria che Márai stesso voleva conservare memoria, in un'identificazione con l'ethos del proprio popolo che costrinse Márai all'esilio nel 1948 «non perché i comunisti non mi avrebbero permesso di scrivere, ma perché temevo che non mi avrebbero permesso di restare in silenzio». Rilanciando l'opera di Krúdy, Márai non dubitava che il tempo avrebbe reso giustizia al misconosciuto autore, e infatti un semplice sopralluogo in Amazon oggi attesta che i libri di Krúdy sono disponibili non solo in originale, ma anche tradotti nelle principali lingue. In italiano, sono in catalogo Girasole, Il giorno delle donne, Le avventure di Sindbad, racconti di avventure amorose che rimandano ad altro. È un libro difficile e affascinante, Sindbad torna a casa, che Márai scrisse nel 1940. Descrive l'ultima giornata di Krúdy, che non si mosse mai dall'Ungheria e aveva scelto come pseudonimo antifrastico il nome dell'avventuroso marinaio delle Mille e una notte. Dandy ormai squattrinato, Sindbad non rinuncia agli agi d'antan, noleggia una carrozza, si reca al bagno turco, al zCaffè dei letterati» dai quali è ormai emarginato, pranza all'hotel London servito premurosamente da un capocameriere che conosce e ricorda i veri letterati come lui, e tutto è pretesto perché Sindbad ricordi i grandi letterati e giornalisti del Novecento ungherese, molti dei quali suicidi, che le sintetiche note ricapitolano per il lettore italiano. Sindbad scriveva «perché era uno scrittore e ogni tanto sentiva una voce, come quando in una stanza vuota comincia a suonare una viola che qualcuno ha dimenticato in un angolo». L'«altra Ungheria» di Sindbad-Márai è costruita intorno a una lingua che «nessuno comprende» ed esprime la vita di un popolo guerriero e gentile, «incapace di commettere infamie». Una terra «silenziosa, dove l'amicizia e l'amore, sotto la protezione della spada dell'onore, vivevano ancora la loro vita segreta e autentica». «L'ungherese non è felice»: questo è il nocciolo della filosofia di Sindbad-Márai. Per questo il suicidio aleggia nel libro, come il suo odore impregnava le camere del London secondo la descrizione tremenda e perfetta del cliente-tipo di quell'albergo che «nel pomeriggio si era fatto portare nella stanza del tè al rum e poi, verso sera, si era appeso alla maniglia della finestra con una vecchia cravatta in modo così abile, che sembrava se la fosse in realtà semplicemente allacciata, preparandosi per una gita romantica e intraprendente. Nelle camere d'albergo regnava l'odore dei suicidi e della noia. Sindbad, che conosceva bene quell'odore, alzò lo sguardo, compassato, verso i piani superiori e annusò con approvazione». Sándor Márai, ormai annoverato fra i grandissimi del Novecento, si è suicidato a 89 anni, nel 1989, a San Diego in California. Le sue opere, tenacemente scritte in ungherese, sono state riscoperte e tradotte in tutto il mondo, dopo la sua morte.
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