mercoledì 30 settembre 2015
Che cosa ha scoperto Stefano, il sedicenne protagonista di Scritto sulla mia pelle, primo romanzo del trentatreenne Pietro Vaghi (Salani, pp. 320, euro 14,90)? Che cosa c'è scritto «sulla sua pelle»? C'è scritto che suo padre è suo padre e sarà sempre suo padre, anche se ha tradito la moglie. C'è scritto che sua madre è sua madre, e sarà sempre sua madre anche se adesso se n'è andata di casa «per una pausa di riflessione», non sentendosi in grado, al momento, di perdonare il marito. C'è scritto, sulla pelle di Stefano, che Paolo è il suo fratello undicenne che ogni tanto gli fa perdere la pazienza, sempre appiccicato, ma è sempre suo fratello. C'è anche il nonno, in fase Alzheimer, che ogni tanto esce di casa e bisogna andarlo a ritrovare, e si mette il pigiama a rovescio, ma è il nonno che ogni tanto dice la cosa giusta, proprio quella di cui Stefano ha bisogno in quel momento, e lo fa quasi per caso, confondendo nomi e persone, sempre col pensiero all'amore della sua vita, la moglie che sente ancora viva.È «scritto sulla pelle», ma non è un tatuaggio, è il premere del Dna, insopprimibile, che ci condiziona e determina, perché l'anima è il software della persona, ed è stata creata direttamente da Dio al momento del nostro concepimento, dunque è perfetta; ma l'hardware è il soma che ci lega ai genitori, ai nonni, agli antenati, su su attraverso sentieri sempre più biforcati fino al buio delle origini.E quanto dolore per Stefano. Lo smarrimento dell'adolescenza, i primi flirt con la segreta consapevolezza che l'amore, quell'attrazione che va al di là della biochimica, richiede un «per sempre» difficile da conquistare. È il «per sempre» che Stefano sente di voler condividere con Francesca, anche lei con i suoi problemi: la madre è morta, il padre, chirurgo, fa quel che può, una sorella maggiore tossica, una sorella minore, Elisa, anche lei in affari di cuore... Per Stefano il mondo è da scoprire, non solo il mondo esterno (sciare è bellissimo, anche imparare ad arrampicare), ma il mondo dei sentimenti: l'amicizia con Max, il compagno di classe più disinvolto, anche lui però con un fondo di serietà che gli attira fiducia; e c'è anche Giulio, il cugino antipatico che gli svela il motivo per cui i genitori di Stefano sono attualmente divisi, motivo che Stefano non doveva sapere e che gli spalanca il baratro: non vuole più saperne di suo padre, dubita perfino di sua madre.Ma suo padre è suo padre, e sua madre è sua madre, e Stefano ha bisogno di loro che hanno bisogno di lui e di Paolo, e anche del nonno, e dunque tocca all'adolescente, improvvisamente più maturo dei genitori, cercare di mettere insieme la famiglia, perché non si può essere felici se non stanno tutti insieme, e nella loro casa, perché la casa è solo quella, non la casa dei nonni o della zia. I tentativi di Stefano sono maldestri, talvolta sembrano sortire l'effetto opposto, ma bisogna ritentare finché il lietofine si lascia intravvedere. Ma quanto dolore, bisogna anche piangere per diventare uomo. Anche per intuire che perfino sotto la maschera di cinismo dell'antipatico Giulio c'è altro dolore.Il romanzo, scritto nel linguaggio in cui gli adolescenti possono riconoscersi, non è un romanzo solo per adolescenti; è un romanzo che aiuta a capire gli adolescenti, ma non è un trattato di pedagogia romanzata. È un romanzo, cioè una narrazione che trasmette contenuti. Contenuti positivi, ed è un miracolo nella narrativa d'oggi. Il succo sta nella frase di Oscar Wilde messa in esergo: «I figli iniziano amando i loro genitori. Col tempo li giudicano. Raramente, se non mai, li perdonano». Già, il perdono. È il perdono a stringere il contenuto e il senso delle relazioni.
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