martedì 28 giugno 2022
Ha detto una volta Aldo Moro che “anche nel crescere e del crescere si può morire”. Un'espressione da lui pronunciata a inizio dicembre del 1974, presentando alle Camere il suo IV governo. Lo statista dc si riferiva naturalmente al nostro Paese: a “questa Italia disordinata e disarmonica”, la definiva, alla ricerca del “giusto ritmo tra lo sviluppo economico e sociale ed il progresso istituzionale e politico”.
All'indomani di un vertice dei Ventisette leader della Ue, che ha dato un coraggioso via libera alla candidatura dell'Ucraina, aggredita militarmente dalla Russia, quelle parole si possono a buon diritto riferire anche all'Europa di oggi. A questa Unione, cioè, complessa e multiforme, ricca di squilibri e contraddizioni, ma ancora capace di immaginare per sé un futuro da protagonista sulla scena internazionale. Purché comprenda che al suo interno ci sono cose da cambiare, procedure e meccanismi da rivedere, obiettivi geopolitici da ricalibrare.
Sempre più voci, in realtà, proprio a proposito di un nuovo possibile allargamento dei Paesi membri, chiedono di rimettere le mani al Trattato fondamentale su due punti molto delicati: le regole per l'ammissione dei nuovi Stati e il principio dell'unanimità, in base al quale tutti i governi devono votare insieme sulle grandi scelte. E se anche uno solo si oppone, tutto si blocca. Proprio al vertice di Bruxelles della scorsa settimana, si è del resto vissuto l'ennesimo braccio di ferro sull'ingresso dei candidati dei Balcani occidentali (Nord-Macedonia in particolare), alcuni dei quali in lista d'attesa da oltre un decennio.
Il primo nodo da sciogliere riguarda i cosiddetti “criteri di Copenaghen”, ai quali gli aspiranti membri devono adeguarsi: in sintesi, sono le regole democratiche relative allo stato di diritto, le libertà economiche e la concorrenza, la condivisione degli obiettivi politici, economici e monetari di fondo. La procedura per la loro applicazione deve essere snellita e accelerata, per evitare frustrazione e ripulse antieuropee delle popolazioni interessate. Ma se da un lato il loro rispetto non si può annacquare, dall'altro non si possono brandire per imporre uniformità in campo sociale e culturale (vedi politiche familiari e questioni a forte impatto etico).
Sull'obbligo di trovare sempre e comunque il consenso di tutti i Paesi membri, è ovvio che, più crescono di numero le voci con diritto di esprimersi, più aumenta la probabilità di vedere uno o l'altro Stato alzare il prezzo del proprio ok alle decisioni comuni. È fresco il caso dell'Ungheria sulle sanzioni alla Russia, congelate per un mese e mezzo per l'impuntatura di Orbàn. Ancor più recente è di nuovo quello del veto bulgaro alla Macedonia, caduto solo in extremis giovedì scorso, ma con una possibile coda velenosa ancora da tagliare.
Il terreno di compromesso si può trovare con il ricorso a forme di maggioranza rafforzata, al posto dell'unanimità, lasciando chi dissente libero di sfilarsi. Ma bisognerà stabilire con molta cura su quali temi potranno scattare le votazioni “a geometria variabile”, per evitare che la Ue diventi un vestito di Arlecchino e il suo volto unitario venga sfigurato. Diceva ancora Moro nel discorso su crescita e pericoli mortali citato all'inizio: “Ma noi siamo qui perché l'Italia viva”! Per l'Europa oggi il destino sembra analogo: allargarsi si può e talvolta – Ucraina docet – si deve. Ma consapevoli di chi siamo e cosa vogliamo essere nel mondo di domani.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI