domenica 24 novembre 2019
Il maiuscolismo è la propensione, l'impulso, l'irrefrenabile esigenza di chi ficca maiuscole ovunque, quasi sempre a vanvera. È decisamente una parolaccia. Ce ne occupiamo con noia e raccapriccio, consapevoli che sarebbe più gradevole scrivere e leggere dell'altro, e che il problema solo all'apparenza può apparire minuscolo. Non si riduce infatti a un puro malcostume grammaticale, all'ennesima offesa al galateo, ma tradisce un modello di pensiero ben radicato nell'animo di singole persone e di spicchi di società. È una sindrome di cui va rintracciata la causa.
Il maiuscolismo è di due generi. Il primo è il "maiestetico" ed è proprio di chi, ogni volta che gli riesce, scrive le parole con l'iniziale maiuscola. Tutti lo facciamo a proposito in presenza di un nome proprio, dopo un punto fermo e all'inizio di un discorso diretto. Alcuni lo fanno a sproposito quando disseminano le maiuscole come zucchero a velo sul pandoro. Per costoro, la maiuscola esprime rispetto, devozione, adorazione. Diventano maiuscoli tutti i titoli: Dottor, Professor, Geometra, Ragioniere, Don e Monsignor (riferito ai presbiteri: nel dubbio, scrivono Monsignor), perfino Signore e basta, tutti premessi da Egregio, Gentile e Gentilissimo, Reverendo e Reverendissimo, Eccellenza ed Eminenza. Diventa maiuscola non solo la Chiesa intesa come comunità dei credenti, ma pure ogni chiesa intesa come edificio. Maiuscole vanno le parole indiscutibili, come Verità; che però, pur se discesa dall'alto, resta nome comune e va in minuscolo.
Il secondo genere, il "pandemico", è quello assai più fastidioso di chi scrive tutto in maiuscolo, per capirci: IN QUESTO MODO. È molto brutto, ma l'obiezione fatale è che loro lo trovano bello e necessario, e ne hanno il diritto. Si determina un effetto urlato che ammorba la pagina, il comunicato, il social network. È come se in treno una dozzina di viaggiatori si mettesse a strillare al telefonino nello stesso momento. Inutile chiedere di abbassare la voce, perché a loro piace così e l'Italia è un paese libero. (Il Paese: maiuscolo; un paese: minuscolo).
Ma perché questo palese abuso della maiuscola? Chi la brandisce si fa notare, balza all'occhio e all'orecchio, si impone. Si tratta di individui pieni di sé, insicuri eppure sicuri di due cose: la debolezza dei propri formidabili argomenti e della propria fragile prosa da un lato, l'irrefrenabile impulso a imporsi dall'altro. Le maiuscole sono doping per tenere in piedi idee e prosa impalpabili e un patetico escamotage per emergere. La cosa buffa è che il maiuscolista pandemico non sempre è consapevole di essere affetto da una sindrome. A volte è davvero convinto che così debba fare chiunque sia forte, mentre i deboli ricorrono alla minuscola. Secondo l'esemplare studio dell'antropologa canadese Clementine Caps, The Uppercase Syndrome, i maiuscolisti coincidono con quelli che saltano la fila, ti parlano a un centimetro dalla faccia, in autostrada ti stanno attaccati al didietro, fanno promesse elettorali impossibili da mantenere.
Il confine tra maiuscola e minuscola, come accade per tutti i confini, è ballerino, sdrucciolevole e nebbioso. Nel dubbio, è saggio optare per la minuscola, facendo sfoggio di understatement. E comunque il sia pur vago pericolo di essere scambiato per un maiuscolista compulsivo non lascia altra scelta: minuscola! Andremo felicemente controcorrente, in un tempo in cui pare che la ragione stia dalla parte di chi strilla, si agita e le spara grosse. Dalla parte dei maiuscolisti: in politica, nella finanza, nei Cda. Il minuscolo bisbiglio prevarrà, un giorno; e sarà impresa maiuscola.
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