martedì 10 luglio 2018
«Noi possiamo muoverci così, senza barriere e difficoltà. Altri, quasi tutti, non possono nemmeno immaginare di poter riabbracciare le persone che amano ogni qualvolta il bisogno di amore e calore si fa acuto. Come si fa a stare in pace con se stessi, se il massimo del mio disagio è trascorrere qualche ora tra un volo e l'altro nelle sale d'aspetto degli aeroporti internazionali mentre l'affamato, l'assetato, il forestiero... sono cacciati». Scrive così l'amico Luca tra un ritorno e l'altro dall'ultimo Paese in ordine di apparizione di una lusinghiera carriera diplomatico-umanitaria. Onesto, come lo è riconosce di fare parte dei privilegiati del pianeta Terra. A suo modo fa parte della categoria dei "pellegrini umanitari" i cui santuari si trovano ben radicati nel Sud del mondo. Le agenzie dell'Onu, le associazioni più disparate e gli enti caritativi si passano parola e progetti per rendere accessibili i siti da visitare e aiutare. I pannelli nei crocevia strategici dei luoghi di pellegrinaggio indicano la strada da seguire e l'emergenza da perpetuare. Si fanno riduzioni per i gruppi.
I turisti sono coloro che accedono e assumono la mobilità come diritto assoluto e non negoziabile. Viaggiare, conoscere e far esperienza di spaesamento sapendo di tornare al luogo di partenza. A loro appartiene il mondo, il mare, le montagne, le spiagge, le città, le viste panoramiche, i colori e i sapori di una lingua differente. Sono tra i padroni del mondo. Nessuno si sognerebbe di metterli in "centri di identificazione" o in "piattaforme di sbarco" onde verificare i motivi reali del viaggio prima della partenza. Eppure i Paesi a sud della Libia ne avrebbero il sacrosanto diritto. Si potrebbe trattare di onesti cercatori di novità, di nullafacenti in cerca di brividi o di sinistri cacciatori di frodo. Difficile saperlo prima senza dare opportune garanzie. Meglio sarebbe provvedere a una selezione tra i turisti degni di essere ospitati e quelli da rifiutare per evidenti motivi. Ci sarebbe allora un turismo scelto e scevro da futili aspirazioni che non incontrano i bisogni delle popolazioni locali. A dirigere i campi di filtraggio sono operatori scelti del Sud.
I testimoni di sabbia arrivano da lontano. Buttano via i documenti per imbrogliare le frontiere e inventarsi un nome di circostanza. Non sanno nuotare, perché la storia si fa coi piedi. Arrivano con un silenzio e con un grido. Il silenzio è quello di coloro che non arrivano mai. Si sono fermati prima del tempo e di loro rimangono nomi non scritti e lettere nascoste ancora da spedire. Un silenzio assordante che si portano dentro come in uno scrigno di cui hanno smarrito la chiave. Un silenzio di silenzi che il dolore e i tradimenti hanno reso indicibile e indecifrabile. Arrivano col silenzio sottobraccio che li accompagnerà per tutto il tempo del soggiorno. Lo custodiranno come un segreto da non rivelare a nessuno che prima non impari a tacere. E poi arrivano, i testimoni di sabbia, a loro volta con un grido. Non è un grido di vittoria e neppure un grido di vendetta. Non è il grido del guerriero e neppure quello dettato dalla paura. Arrivano con l'unico grido che ancora rimane al mondo per salvarsi. È il grido di coloro che non vogliono scomparire senza prima vivere.
È proprio così il grido di Narley che parte con una borsa di plastica colma di vestiti usati. Il suo era un pianto perché, dopo anni di lavoro in Algeria, è stata arrestata, deportata e abbandonata nel deserto col solo vestito che portava addosso in strada. Provava vergogna a tornare a casa con l'abito che le ricordava l'inferno dell'espulsione. Ha scelto con calma e pudore i vestiti più belli da indossare per il ritorno al Paese che ha lasciato nel 2013. L'attendono in Liberia due figli e la madre che li ha nel frattempo custoditi. Indosserà il vestito che tutti dovrebbero portare, quello della dignità.
Niamey, luglio 2018
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI