martedì 19 maggio 2020
Ei campi verdi all'improv-viso son diventati Parchi delle Rimembranze. Sembrava una piacevole evasione, la ricerca del tempo perduto: è diventata un'intrusione di realtà archiviate – neanche sogni – nella dolorosa attualità. Non c'è stata partita, fino al gol di Haaland in Borussia–Shalke 4–0 (rivisitazione obbligata del nome del club). Per mesi s'è fatto ricorso al revival, gradevole rivisitazione del vecchio jazz, altrove magra consolazione, fino a consumare decine di pagine e filmati tivù come nel caso del Triplete interista, scudetto, Coppa Italia e Champions League. Una storia di appena dieci anni fa che invece di rasserenare gli animi pandemici ha scatenato nei tifosi della Beneamata una frustrante voglia di rivincere. I narratori d'oggi, in genere, non sanno molto, forti in cronaca gli manca la storia. Devono attingere alla Fonte di Brera. Uno dei più richiesti Testimoni del Tempo era appena un ragazzo, nel'64, quando Moratti Angelo, sollevato al cielo da Facchetti, Guarneri e Suarez al Prater di Vienna, mostrò al mondo la Coppa dei Campioni sottratta con Herrera Helenio al Real Madrid. Evento memorabile davvero. Degno sì di rivisitazione. Con quella formazione che si manda a memoria da oltre mezzo secolo come una filastrocca: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso. Commentava Eduardo Galeano: «Quale altra formazione, a distanza di tanti lustri, è impressa più di questa nella memoria di ogni tifoso, anche non nerazzurro?». Io ce l'avrei – Negri; Furlanis, Pavinato; Tumburus, Janich, Fogli, Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Pascutti – ma la tengo qui per sempre, nella testa e nel cuore, non pretendo, come oggi gli interisti del Triplete, di rinverdire una vecchia gloria con una nuova conquista, ch'è questa la morale della tendenza al replay di vecchie vittorie: realizzarne una nuova, quasi contro, come successe quando si attribuirono a Mourinho più qualitá di quelle risapute di HH mentre io ne segnalavo una sola in comune: erano entrambi catenacciari. Se si va per uomini, vince l'Inter di dieci anni fa: Julio Cesar; Maicon, Lucio, Samuel, Chivu; Zanetti, Stankovic, Thiago Motta (Muntari); Sneijder; (Vieira) Milito (Balotelli), Eto'o. A rimestar la cronaca succede poi d'incontrare – con vistoso dolore degli estetisti – El Hombre di quel Partido, Samuel Eto'o, che conferma: «Fui terzino, e vincemmo». Ho partecipato, in questi tempi di magra, al ricordo del Grande Torino. Avevo dieci anni, nel ‘49, quando dal cielo passò al Cielo, e ne ho appena tratteggiato il profilo umano, il tragico destino che diventò lutto popolare, la favola che si fece storia. So per certo, in questo vuoto di attività del nostro gioco più amato, che il Grande Torino è storia come la Grande Juve degli anni Trenta, i cinque–scudetti–cinque di Carcano, emozione forte senza lutto ma tale da non essere minimamente offuscata dagli otto scudetti bianconeri dei nostri giorni che sono pura cronaca.
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