sabato 26 novembre 2016
Il trapianto di midollo osseo (ricco di cellule staminali) è la terapia che ha rivoluzionato le cure delle leucemie, ma si è rivelato utile anche per patologie del sistema immunitario. A limitarne l'efficacia è la compatibilità immunologica del donatore con il ricevente, il quale rischia di subire gravi danni (talvolta fino alla morte) dalla aggressività delle cellule trapiantate. Nel caso il paziente sia un bambino e manchi del tutto un donatore, si può ricorrere al trapianto di midollo da un genitore, che condivide la metà del patrimonio genetico con il figlio. Questo però non evita del tutto i rischi di fallimento della terapia.
Ora un grande passo in avanti è stato compiuto dai ricercatori dell'ospedale pediatrico «Bambino Gesù» di Roma, coordinati da Franco Locatelli, direttore del dipartimento di Oncoematologia. La soluzione adottata consiste nel prelevare cellule linfocitarie del sangue del genitore donatore, manipolarle con l'inserimento di un gene (iC9) detto «suicida» e iniettarle nel bambino due settimane dopo il trapianto. Se compare la complicazione della malattia del trapianto contro l'ospite (Gvdh, la sigla inglese di Graft versus host disease) con un'ulteriore iniezione viene attivato nel ricevente il gene che interviene a «spegnere» l'aggressione nei confronti dell'organismo del paziente. I risultati su 20 bambini affetti da immunodeficienze primitive si sono dimostrati eccellenti: guarigioni del 100 per cento, senza complicazioni. I dati verranno illustrati sabato 3 dicembre a San Diego (California) all'annuale appuntamento della Società americana di ematologia.
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