sabato 25 agosto 2012
Sono nata qui, in questa terra dove, quando si parla di guerra, si ricorda quella del 1915-1918 come fosse stata l'unica sofferta. L'ultima, quella che ha distrutto mezza Italia e sconvolto metà del mondo, qui non ha lasciato gravi ferite quanto la prima della quale ancora si trovano, tra le rocce, antiche trincee e bombe inesplose. Oggi i paesi hanno cambiato aspetto, le case hanno i colori tenui e gradevoli alla vista, negli orti non mancano i fiori, la gente vive ancora bene nonostante la situazione di difficoltà economica nella quale tutti siamo immersi. Sono ritornata in questa casa circondata dai boschi, ogni estate della mia vita. La prima foto in braccio a mio padre è su questo prato dove in prima fila danno bella mostra di sé alcune mucche e una capretta mentre una famiglia di contadini riposa dopo aver tagliato il fieno. Forse era l'ultimo giorno di vacanza perché le finestre hanno le persiane chiuse e sullo sfondo le cime delle montagne sono velate dalle nebbie d'autunno. I prati che scendono da una valletta coperta dal bosco, oggi sono pettinati dalle nuove macchine falciatrici che danno loro un aspetto di una coperta di velluto perfetta, senza una piega. Quando eravamo bambine, vestite di colori e di colletti ricamati dalla nonna, il gioco preferito era saltare da una buca all'altra di questo terreno che sotto l'erba nuova conservava ancora i segni delle granate della prima guerra a formare un mare dalle onde verdi sulle quali, gridando e ridendo, si fingeva di nuotare. Genitori, zii, cugini intrecciavano le loro giornate d'estate in quello che mi sembrava essere un tempo felice e quando arrivava sulla tavola una grande polenta con qualche cosa di contorno mi sembrava pasto da re. Poi noi raccogliemmo i nostri capelli in lunghe trecce mentre i «grandi» mettevano i primi capelli bianchi e gli abeti, i pinie i larici si alzavano ogni anno di più a nascondere le cime delle montagne e il cielo. Davanti alla mia finestra spalancata sullo stesso orizzonte di allora sembra che il tempo non sia passato e mi basta socchiudere gli occhi per ingannare me stessa e vedere ancora la figura di mio padre leggere il giornale sotto il tiglio o alzare gli occhiali per guardare i nipotini che litigano rotolandosi sull'erba. Egli mi ha insegnato ad affrontare le difficoltà che la vita presenta ad ognuno con equilibrio senza lasciare da parte le gioie che essa ci offre. Un uomo senza paura. Un uomo cosciente delle proprie capacità, ma semplice nell'offrire agli altri. Capace di sacrifici silenziosi, mai scoraggiato dalle avversità, ma anche senza vanità quando gli era stato offerto il potere. Aveva saputo mantenere anche in mezzo alle tentazioni della politica un animo pulito. Per lui ancora cantiamo in questa sua terra una vecchia canzone che amava: «Signore delle cime, Ti preghiamo, su nel paradiso, lascialo andare per le Tue montagne...».
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