venerdì 12 novembre 2021
Mi occupavo un tempo di bambini e di pedagogia, e ad assicurarmi un certo successo era il fatto di conoscere un sacco di giochi e di conseguenza di sapermela cavare in ogni situazione. Con i piccoli gruppi e con i grandi, in ogni stagione e in ogni luogo, al chiuso e all'aperto, al mare e in campagna. È la cosa che sapevo fare meglio, ed ero diventato bravo a tenere a bada decine e decine di bambini, scatenandoli o al contrario calmandoli con i giochi più adatti. Il mio repertorio era molto vasto perché si basava sui tanti giochi che si facevano in strada o nelle piazze quando io ero bambino, su quelli che mi avevano insegnato i bambini di Palermo, Menfi, Napoli-Montesanto e le amiche “monitrici di colonia” (rari i monitori) che incontravo d'estate nelle colonie del Ceis, la scuola italo-svizzera di Rimini fondata dalla grande Margherita Zoebeli, e infine certi preziosi libretti dei Cemea francesi (Centri di esercitazione ai metodi della scuola attiva) che che saccheggiai per una rubrica che tenni sul “Giornale dei genitori” di Ada Gobetti. Giochi di gruppo, esclusivamente di gruppo. Che sono quelli maggiormente assenti dall'esperienza infantile di oggi, e ovviamente anche dalla scuola, nonostante l'insistenza e la splendida buona volontà di minoranze come quelle del Movimento di cooperazione educativa, che si occupano però più di infanzia e meno di pubertà e adolescenza. Il gruppo. La nostra convinzione, direi perfino una nostra religione, era quella del lavoro di gruppo nella scuola e dovunque, e questo valeva anche per il lavoro con gli adulti, che impegnavamo, nelle situazioni festose, anche in danze all'antica, i “balli tondi” così diversi dal “liscio” di coppia e anche dall'agitarsi individuale delle discoteche. Questo repertorio di giochi e di situazioni mi è servito tante volte a sbrigarmela in situazioni le più diverse, e prima o poi, se un editore mi darà retta, ripubblicherei la rubrica del “Giornale dei genitori” perché possa servire a qualche educatore di oggi, che forse anche di questo si ha bisogno: del “lavoro di gruppo” e di quello “di comunità”, e ricominciando dai bambini. Certo, è più facile lasciarli smanettare con telefonini e computer, in una rumorosa solitudine, manipolabile e manipolata... «Chi gioca solo non perde mai», diceva un proverbio siciliano che Danilo Dolci aborriva, perché è sempre stato vero il contrario, e i self-made-men hanno finito quasi sempre per diventare dei self-made-bastard, come li si chiamò in un grande western, I professionisti di Richard Brooks, e gli aspiranti tali, tanti e poi tanti, una massa, per diventare dei perdenti assoluti, di fronte a self-made più astuti e più perfidi. È dal gruppo che bisogna ripartire, oggi più che mai, per sentirsi ed essere vivi, per essere utili a qualcosa.
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