venerdì 28 marzo 2014
Non ha proferito parola. Nemmeno quando una folla di sostenitori ha gridato più volte il suo nome. Iwao Hakamada è uscito dal carcere di Kouchisho di Tokyo a testa bassa. Incredulo, spaventato. Le stesse sensazioni che provò 46 anni fa quando varcò per la prima volta – ma in direzione opposta – i cancelli di quella prigione. Iwao aveva 32 anni e il tribunale lo aveva appena condannato alla pena di morte per l'assassinio del suo datore di lavoro, della moglie di questo e dei loro due bambini. L'orribile crimine era avvenuto due anni prima, nel 1966. Il “sospetto” Hakamada, ex pugile con problemi mentali, fu interrogato per venti dei giorni. Alla fine, firmò una confessione poi ritrattata. Non solo: l'uomo denunciò di essere stato malmenato e vessato per costringerlo a dichiararsi colpevole. Dichiarazioni che i giudici non accolsero allora e nemmeno 12 anni dopo, nel primo ricorso. Ora, però, la corte distrettuale di Shizuoka ha cambiato direzione. Dopo decenni di instancabili battaglie della sorella di Iwao, Hideko, il tribunale ha accettato la revisione del caso e di analizzare – grazie alle attuali tecniche – il Dna scoperto sulla scena del crimine. Una prova che potrebbe dimostrare l'innocenza dell'imputato. In attesa del nuovo giudizio, Hakamada, ora 78enne, ha potuto quella che per quasi mezzo secolo è stata la sua casa: il braccio della morte. Un record mondiale. Non il solo, stavolta in positivo, ottenuto da Iwao. Questi è uno degli unici sei condannati a morte a cui il Giappone ha deciso di concedere un riesame.
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