sabato 14 luglio 2018
Un tempo la nomina di ambasciatore presso la Santa Sede era considerata alla stregua di un premio alla carriera, un posto prestigioso per un diplomatico prossimo ormai alla pensione. Questo, appunto, fino a qualche tempo addietro. E non parliamo della preistoria ma di una trentina o poco più di anni fa. Poi, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, le cose cambiarono radicalmente, ed è ormai prassi comune assegnare in Vaticano diplomatici giovani e promettenti per "farsi le ossa", come si dice, essendo ormai considerato Oltretevere l'ultimo posto al mondo dove «si fa sul serio pura diplomazia, e null'altro». A fare tale affermazione fu, qualche anno fa, il cardinale Jean-Louis Tauran, scomparso il 5 luglio e che nei suoi 13 anni da "ministro degli esteri" del Vaticano ha contribuito in maniera molto significativa a far crescere la considerazione e il "peso" della diplomazia del Papa. Anzi, per dirla tutta, fu lui l'artefice di quello che può essere giudicato come il capolavoro diplomatico assoluto degli ultimi cinquant'anni. Era il 1994 e, come un fulmine a ciel sereno, Giovanni Paolo II al termine di un'udienza generale denunciò con toni drammatici il rischio che la Conferenza delle Nazioni Unite in preparazione al Cairo su popolazione e sviluppo rischiava di trasformarsi, in quello che le stesse Nazioni Unite avevano dichiarato "Anno della famiglia", in una conferenza "contro" la famiglia.
Se oggi si cerca in rete qualcosa su quella conferenza nel 99% dei casi si legge che il Vaticano si fece promotore di una pressione fortissima, spalleggiato da «Paesi cattolici» e «islamici radicali» per contrastare ogni apertura verso l'aborto e, di conseguenza, ogni emancipazione della donna. Le cose, in realtà, stavano in modo del tutto diverso: nel documento preparatorio della Conferenza, fortemente sostenuto dagli Stati Uniti e redatto da un'organizzazione privata americana per la pianificazione delle nascite, veniva proposto un intervento draconiano di contenimento delle nascite comprendente, tra l'altro, una massiccia campagna di sterilizzazione di massa che avrebbe dovuto interessare i Paesi più poveri. Qualcosa di inaudito e di gravissimo, con la sua pretesa di condizionare le politiche interne nazionali in nome di un presunto "interesse superiore" – scongiurare il rischio sovrappopolazione – in realtà inesistente, di sicuro non nei termini terroristici sbandierati in quel documento.
L'intervento di papa Wojtyla fece così rivolgere verso Roma l'attenzione di tutti quei Paesi che si sentivano direttamente minacciati dall'impostazione data alla Conferenza. E fu proprio il "ministro degli esteri" del Vaticano Jean-Louis Tauran, spalleggiato dall'allora osservatore della Santa Sede alle Nazioni Unite monsignor Renato Martino, a iniziare a tessere i fili di una tela complessa e, sulla carta, ampiamente disomogenea, che avrebbe portato alla fine quasi 100 Paesi a presentarsi con una linea comune nella capitale egiziana per rivendicare il proprio diritto a decidere autonomamente circa le delicatissime questioni sul tappeto. Sulle quali di sicuro si poteva discutere, ma che certamente non potevano essere imposte dall'alto.
Un lavoro che portò anche a una crisi seria dei rapporti tra la Santa Sede e gli Stati Uniti, in parte rientrata dopo una visita lampo del presidente Clinton in Vaticano. Così al Cairo finì col prevalere la linea moderata di cui Tauran per mesi, nell'ombra e senza che quasi nessuno lo sapesse, s'era fatto tessitore.
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