venerdì 13 aprile 2018
Non farò nomi, ne dovrei fare cento, ma mi chiedo, e con me se lo chiedono certamente i cosiddetti “lettori forti”, che per dovere o per piacere seguono con partecipe attenzione l'evoluzione della nostra letteratura, e cioè, in un modo certamente distorto, l'evoluzione o involuzione della nostra società: perché centinaia, forse migliaia di persone si sentono in dovere di scrivere e in particolare di scrivere romanzi? E accessoriamente: perché tra loro abbondano quelli che una volta davanti al computer, presi da una compensatoria smania narcisistica, si sentono in dovere di sovrabbondare, di scrivere e scrivere e scrivere, credendo di fare chissà cosa mentre fanno una cosa che fanno in tanti, che credono di distinguersi, di esistere per il fatto di scrivere e soprattutto di pubblicare? Tanti anni fa un grande e vero scrittore, Giuseppe Pontiggia, Peppo per gli amici, scrisse per “Linea d'ombra” dopo una nostra animata discussione, un articolo acutissimo su una malattia assai diffusa tra gli scrittori, e di cui anche lui ogni tanto soffriva: «La paura di non esistere». Ma oggi questa malattia è diventata un'epidemia, con la variante più brufolosa di tutte, la smania di mettere al mondo un immortale mattone che vada oltre le 300, 400, 500 pagine! Ma frequentano le librerie i nostri romanzieri, i nostri scrittori (perlopiù scriventi e non scrittori, secondo una chiara distinzione morantiana)? E non vedono che la durata media di un libro sui banconi delle librerie – data la folle sovrapproduzione di oggi con gli editori che fanno libri a valanga per il fatturato o, meglio, per accontentare le banche che esigono il flusso continuo del denaro e alle quali zero importa della qualità dei prodotti – è di pochi giorni, è al massimo di due o tre settimane se, uno su mille, non diventa un provvisorio best-seller (che dura quattro, cinque settimane)? Ma come reagiscono a questo gli scriventi? Si rimettono davanti al computer e sfornano un altro romanzone. La “paura di non esistere” colpisce ancora. Ho davanti a me tre o quattro recentissimi romanzi di giovani scrittori italiani che mi sembra abbiano qualcosa o molto da dire, e che superano tutti le 350, le 400 pagine, ma delle quali una gran parte mi sembrano superflue. Un editor intelligente avrebbe costretto il giovane scrittore a tagliare – anche, perché no? – pensando a come utilizzarle per un secondo romanzo. Ma i giovani scrittori sono ostinati e gli editori non hanno editor in grado di imporsi con la necessaria autorevolezza (spesso scrivono anche loro, e hanno la stessa malattia). Finisce così che, capita l'antifona, un lettore non occasionale lascia il libro a metà. Ha le sue ragioni, più forte di quelle degli scrittori, perché lui è uno e loro sono mille, ha il diritto di difendersi. La vita è una sola e la massa degli scriventi non può pretendere dal lettore forte o dal critico (anziano o giovane non cambia) di dedicarla agli incontinenti. Si rinuncia a volte con rammarico, e potrei citare almeno tre romanzi di questi giorni di notevole interesse e di notevole qualità. Ma ben gli sta!
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI